venerdì 20 maggio 2011



Anna e Franca, scriversi in una gabbia
Due ex terroriste a confronto

Una corrispondenza immaginaria scritta da Daniela Bini*

1988, Roma,Carcere di Rebibbia
Anna, ex membro delle Brigate Rosse, e Franca, ex membro dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari, si ritrovano a condividere alcuni spazi comuni all’interno della prigione. Sono entrambe detenute politiche. Anna, per Franca, è “la comunista”; Franca, per Anna, è “la fascista”.
All’inizio, odio. Poi, diffidenza. Ben presto, curiosità. Si osservano restando a distanza, si scrutano, si studiano. Stanno lontane, ma sentono una specie di calamita che le attrae.
Passano i giorni.
Un pomeriggio, Franca rompe il silenzio. “Vuoi dei dolci? Sono buoni, assaggiali”.
Apre un cartoccio che le è stato consegnato dalla guardia e che le arriva da casa, dalla sua famiglia.
Anna è impietrita, bloccata, ma si fa coraggio. Allunga una mano, afferra rapida un biscotto, lo infila dritto in bocca, farfuglia un “grazie” mentre tenta di masticare un boccone che le pare enorme e secco, impossibile da deglutire.
“Non è male qui a Rebibbia. Si sta meglio che in altre carceri”.
Anna non può tacere, né far finta di nulla.
“Sì, è vero, non è male qui”.
Che cosa vuole da me?, si chiede Anna. Siamo su due fronti opposti e fa l’amicona. A suo tempo ci saremmo scannate! …….A suo tempo, già. Ma ora? Ha senso odiarsi? O ignorarsi? Forse ha ragione lei.
Chissà mai cosa vorrà ottenere restandosene lì, a guardarmi di traverso!, replica tra sé Franca. Certo se mi fosse capitata tra le mani un po’ di anni fa, con quell’aria da compagna irriducibile… Peccato che ora entrambe siamo ridotte a sopravvivere a noi stesse e a passare il tempo nello spazio ristretto e soffocante del carcere. Eppure, non riesce a dispiacermi del tutto.
Le settimane si susseguono. Anna e Franca parlano, della prigione, delle loro giornate, delle letture che fanno, degli studi con cui occupano il tempo alterato e dilatato della realtà penitenziaria. L’odio e la diffidenza lasciano spazio all’interesse reciproco, a una forma di trasporto dell’una verso l’altra che le avvicina sempre più, in un alterno scoprirsi e rivelarsi.
A poco a poco, lottando contro una forma di pudore che è tratto distintivo di chi sta in carcere e paga una pena, cominciano a parlare di sé, del loro passato, del peso che grava su di loro, delle morti che hanno provocato, dei motivi per i quali hanno scelto la lotta armata, della delusione che hanno procurato alle rispettive famiglie. Dei genitori, dei fratelli o delle sorelle, che spesso non hanno compreso, che hanno pagato con la sofferenza la separazione dalle amate figlie o sorelle per un ideale – ma di ideale si è trattato? o di un’illusione? -, della loro rinuncia a essere madri in nome della rivoluzione o per essere finite in carcere ancora giovani, troppo giovani.
Si stupiscono. Si stupiscono di dialogare tra loro – ancora fanno fatica a crederlo e poche compagne di carcere comprendono la particolare natura di questo anomalo rapporto - di avere punti in comune nella dolente e tragica storia delle loro esistenze, di constatare come gli opposti estremismi, per il fatto stesso di essere opposti ed estremismi, siano in realtà molto, molto vicini tra loro.
Di più: si stupiscono di creare nel tempo, nei giorni, nei momenti insieme, un rapporto di fiducia, stima e amicizia che trascende ogni ideologia e ogni partigianeria politica.
Si stupiscono di potersi aprire l’una all’altra ogni volta con sempre minori reticenze, con una disponibilità e uno slancio che paiono inconcepibili a loro stesse in primo luogo e che non vengono minimamente capiti e giustificati da chi sta “fuori” dal loro legame, dalle loro stesse compagne di prigionia, che non ammettono, nella rigida gerarchia del lecito e dell’illecito che in carcere è più drastica che nella vita normale, l’esistenza di un’amicizia insana, impossibile, forzata, patetica, paradossale; da chi, infine, non condivide il mondo spirituale e intimo di due donne che, una a “sinistra” e una “a destra”, hanno avuto un ruolo tragicamente importante e decisivo nella storia italiana degli Anni Settanta e Ottanta del Novecento.
Poi…la separazione. Anna può usufruire del regime di semilibertà. Franca deve restare in prigione.
Una “fuori”, l’altra “dentro”.
Restare fuori o dentro, tuttavia, non ha più alcuna importanza. Il legame tra loro è oltre le distanze e oltre la pena che devono subire, al di là di tutto ciò che possa in qualche modo tentare di dividerle e di allontanarle.
Anna, “Annetta” (come Franca la chiama) e Franca, “Mouse”, “il topolino” (nelle parole affettuose di Anna), sono ormai amiche. Comunicheranno tra loro attraverso lo strumento più antico, nobile e romantico del mondo: lo strumento epistolare.
Anna e Franca, lettere.
Anna – Caro “Mouse”, la vita fuori dalla prigione, da quel cerchio opprimente e rassicurante a un tempo, non è facile. Si respira e si soffoca, si lavora e si soffre, si affronta ogni giornata con determinazione e ottimismo e si conclude con stanchezza e paura. Non so se ce la farò a tornare nella vita comune. Mi sento debole, fuori posto, sempre seguita e perseguitata dalla mia ombra scura che mi ricorda chi sono stata e cosa tutti provano quando mi guardano. Penso spesso a te, a noi, alle nostre chiacchierate. Penso anche che tu sei ancora dentro, che stai aspettando una nuova sentenza che deciderà se sei colpevole o innocente per il capo d’accusa che pesa ancora oscuro su di te. Tu sai chi sei, sai che cosa hai commesso, conosci i tuoi sbagli e i tuoi errori, convivi con i tuoi fantasmi come me e sai che la vita non concede sconti. Ti sono vicina.
Franca – Cara Annetta, le tue lettere sono il miglior conforto che io possa avere in questi giorni, oltre al sonno che, però, spesso è tormentato e sconnesso, come i miei pensieri. Ho paura. Temo l’esito della sentenza. Temo di dover ancora accettare di essere il “mostro” che la stampa da anni descrive e getta in pasto alla gente. Sono un “mostro”? No. Mi sento piuttosto un resto, un avanzo di umanità che attende di sapere se sarà destinato alla sterilità perenne o alla speranza di una rinascita. Sì, ho ucciso. Sono colpevole di tutto ciò per cui sono stata accusata, ma non di quella orribile strage. Questo peso, no, non incombe né grava su di me. Non mi stancherò di ripeterlo, qualunque sia la sentenza che attendo.
La sentenza arriva. Confermato per Franca l’ennesimo ergastolo per la strage di uomini, donne, bambini compiuta in un giorno d’estate di trentuno anni fa.
Anna esce dalla prigione per andare a lavorare. Rientra la sera. Tra poco sarà libera e avrà scontato il suo debito con la giustizia.
Franca resterà in carcere fino al 2013.
Si scrivono ancora.
Sono ancora amiche.
Lo saranno per sempre.

*Professoressa di Lettere in un Liceo di Lecco e studio degli Anni di Piombo

1 commento:

  1. L'argomento è davvero interessante e merita un approfondimento, che certamente interesserà a molti. Aspettiamo una pubblicazione della Professoressa Bini oppure un suo romanzo, viste le indubbie capacità narrative.
    Valeria

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Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma

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