mercoledì 29 febbraio 2012

Maternità tra incubo e sogno


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Secondo appuntamento con Anna Tognetti

Non sono mamma e non per scelta. Il desiderio c’è malgrado la difficoltà legata al lavoro, e non penso tanto in termini economici, quanto di certezze. Non credo che un figlio sia un ostacolo alla carriera, anzi semmai una ragione in più per raggiungere un traguardo. Non credo però ai figli monogenitoriali. Penso che sia un atto di egoismo da parte di una donna, che non condivido. I figli si fanno in due e ci sarà un perché.

A teatro ha mai interpretato il ruolo di madre?
Mi è capitato qualche anno fa e ho dovuto invecchiarmi molto perché la donna protagonista aveva 50 anni circa e la figlia 25: in realtà eravamo quasi coetanee. Il testo “E pensare che eravamo comunisti” di Roberto D’Alessandro – scritto in occasione delle precedenti elezioni amministrative – era molto sbilanciato sul ruolo della politica quando è invasiva del privato. In quel caso interpretavo una donna profondamente coinvolta nella fede politica che arriva a rinnegare il figlio per una divergenza di vedute. Interessante anche se oggi mi piacerebbe affrontare un personaggio in grado di sviscerare profondamente il rapporto intimo madre e figlio.

Qual è la scena che descrive il punto di vista del Regista e anche la sua convinzione della necessità di essere genitori in due?

Una riunione di famiglia mentre le elezioni si avvicinano. Arriva la sorella del marito dalla Calabria e per dovere di accoglienza si cerca di evitare l’argomento politico quando il figlio, diciottenne, si alza in piedi e dice di dover dire una cosa importante che spera non metterà in crisi la famiglia. D’altronde l’età gli consente scelte autonome. Svela di essere iscritto alla lista di Francesco Storace. La madre si alza e gli dà uno schiaffo. Ne segue una frattura, mentre il padre cercando di comporre il dissidio si trasferisce con il figlio temporaneamente a casa della sorella e la madre resta con la figlia. Pur nella crudezza della situazione, si evidenzia l’importanza della mediazione o del supporto alternativo che un genitore può dare nel momento critico all’altro.

Chi è Anna Tognetti
Attrice di teatro, cinema e televisione, si è formata all’Accademia Pietro Sharoff di Roma e alla Lee Strasberg School di New York.
Al cinema ha lavorato ne’ “Il figlio più piccolo” – regia Pupi Avati (2009); “Studenti” di P. Mancini e le “Le ombre rosse” di Citto Maselli (2008). Per la televisione in “Pupetta Maresca”, fiction Canale 5; “Anna e i cinque”, sempre su Canale 5 e nel docufilm “Il giorno della Shoa”.
Attenta alle lingue, parla francese e un ottimo inglese ma soprattutto cultrice dei dialetti, pugliese, milanese, romanesco, romagnolo e del vernacolo toscano. Pratica con abilità nuoto, equitazione e – una curiosità – spada medioevale.


Ultimo lavoro in scena?

“Ma cos’è …quest’amore”, regia di C. Alighiero, al Teatro Manzoni di Roma, ancora in scena dove interpreta Marilù, vera attrice dello spettacolo che non sottomette l’espressività alla voce e alla canzone ma dimostra, pur in una parte minore da antagonista, di essere una figura completa.

I prossimi lavori e progetti?

Sono stata contattata sempre dal Teatro Manzoni per uno spettacolo che sarà in scena la prossima stagione ma ancora non conosco il titolo. Chissà se riuscirò a interpretare il ruolo di madre per poter approfondire quanto ancora non ho avuto modo di dire….

giovedì 23 febbraio 2012

La maternità tra incubo e sogno


La maternità tra incubo e sogno
Primo appuntamento con Laura Sales

L'iniziativa comincia con un'amica che ho conosciuto sul palcoscenico durante la rappresentazione di "Donne argentine in fondo al mare" dell'argentino Daniel Fermani. La mia idea è maturata insieme a lei e mi sembra giusto cominciare così...

“La maternità negata, imposta; la maternità cercata, desiderata
, ambita, rifiutata. Questo tema ha a che fare con la donna dalla sua nascita e l’accompagna in ogni fase del crescere; a volta amica, in altri casi nemica. In sé la maternità è luce ed ombra; possibilità e limite; senso di completezza e castrazione. La maternità è donna; madre e matrigna. Maternità come vita e morte allo stesso tempo. Morte della donna che era prima della nascita di un nuovo essere e nascita di una nuova donna, differente a volte sofferente per ciò che non c’è più; per chi ha lasciato il posto alla nuova donna che oggi abita la terra insieme ad un nuovo essere a cui ha dato la vita.
Io sono un’attrice e una regista di teatro, nei miei lavori il tema della donna è centrale; ed in particolare è centrale la doppia natura della donna come madre e matrigna. Senza rendermene conto da anni i testi e le donne che interpreto snodano la loro identità attraverso tale binomio; portatrice della vita e della morte come se questo mondo, all’apparenza limitato fosse, al contrario, ricco di sfaccettature e possibilità”. Perché mi interessa così tanto questo tema dell’ambiguità nella maternità? Non lo so o forse perché è un tema che cresce dentro il mio essere donna, madre e artista e queste tre sub identità a volte vivono una accanto all’altra, componendo lo stesso disegno; altre lottano e mi conducono nei labirinti delle mie viscere, delle mie contraddizioni; del mio essere una Donna; l’esperienza della maternità ha cambiato completamente la mia vita, il mio modo di stare al mondo; ha riempito quel vuoto che ho sentito sin dalla nascita e allo stesso tempo ogni giorno mi mette in discussione; mi mette in contatto con i miei limiti e le mie possibilità; ma ciò che più sento da dal momento in cui quel seme ha messo le radici dentro di me è la possibilità continua di essere madre e matrigna; creatrice e distruttrice.

Un brano che interpreti il suo scritto, che ha recitato o che le è caro?

“Capisco l’ansia capisco alla donna. Non capisco la madre. Perché madre dovrebbe essere chi ha vinto il tempo e guarda serena nello specchio della propria figlia il passo della sua vita stessa. Invece tu… Tu mi odii perché questo specchio non vuoi vedere; come se un altro specchio qualsiasi… Qualsiasi volto, qualsiasi aria non ti dicesse costantemente Sei chi sei e niente più di quello e niente c’è che tu puoi fare per cambiarlo. No. Madre sei e donna sei. La madre trasformò la donna e anche se donna continui ad essere, di madre obblighi devi assumere, lasciando sull’orlo della strada quella febbre che ti consuma darmi la valigia della tua mano stessa perché prosegua io il sentiero che tu hai iniziato e un giorno. Un giorno sarò quella stessa che quella valigia darà ad un’altra donna ad un’altra donna che proseguirà per me”. Tratto da “Corpi di donne su di un piano inclinato” di Daniel Fermani

Chi è Laura Sales?

Attrice e Regista teatrale romana, dove vive e lavora nella Capitale. E’ Direttore artistico di “La Casa de Asterion”, Centro italo argentino di ricerca e formazione attoriale. Dopo un inizio nel teatro classico, si è orientata al teatro di ricerca e teatro-danza. Arteterapeuta ad orientamento psicofisiologico, utilizza la danza come strumento di terapia ed integrazione dell’Io.
Laureata in Lettere indirizzo Dams, ha conseguito una laurea specialistica in Editoria e Giornalismo, presso l’Università Lumsa di Roma con una tesi in giornalismo televisivo, La dittatura argentina. Il buio dell’informazione. Collabora con il sito di cultura ed arte SaltinAria e come Addetto stampa in ambito politico e culturale ed organizza mostre ed eventi culturali.

I prossimi lavori?
“Lo scorpione bianco” di Daniel Fermani e “E donne strumenti” (titolo provvisorio) di Laura Sales e Fabio Bianchini. Entrambi gli spettacoli vertono su questo tema. Il primo, dell’autore argentino Daniel Fermani, è centrato sulla figura di Medea e sul dramma successivo all’uccisione dei figli; un testo nato dall’osservazione di una donna in un manicomio; dai suoi pensieri, dalle sue immagini, dai suoi delirio.
Il secondo è tratto da storie di donne che hanno ucciso i loro figli; sarà strutturato in monologhi ed ogni donna lavorerà con un musicista; con uno strumento che verrà utilizzato come altra voce della propria essenza. Ogni donna parlerà di sé, di quello che ricorda del proprio essere madre, del proprio figlio e poi della fine. Io e Fabio stiamo rielaborando i testi per renderli teatrali e allo stesso tempo stiamo cercando di non togliere nulla dal racconto; nessun elemento di verità, di drammaticità o di follia.

Un' anticipazione?
Chi sarò adesso? Niente di quello che sono stata continuerò ad essere. Niente di quello che fui. La ragione per la quale sono venuta a questo mondo non esiste più. La vostra presenza davanti a me, figli miei, prova ne è della mia determinazione. Vita sono stata e morte sarò. Umana ero, io, donna, madre forse. Cosa mi rese madre? Un parto, uno strappo nel mio corpo aperto?… No. E’ stata una decisione, un atteggiamento. Madre volevo essere, perché donna ero; fui; volli essere completa e quello mi avevano insegnato. Donna madre tutto. Tutto volevo essere per giustificare la mia presenza tra la presenza di tutte le cose sacre che popolano il mondo: le piante, il fuoco, i frutti, lo scalpore di un fiume. Essere volevo pure io diventare. Non sogno. Non fumo. Non immagine di un’immagine. Non spirito etereo. Piedi sul suolo volevo poggiare. Incarnazione della vita. Io. Come l’albero incarna la terra ed il cielo, così io, donna, incarnare volevo vita e morte, sonno e vigilia, carne ed anima. Tratto da’ “Lo scorpione bianco” di Daniel Fermani

lunedì 20 febbraio 2012

Nuovo appuntamento con le poesie di Andrea Ingrosso, dalla raccolta "Cuoretica"


Capiterà

Capiterà.
Che un giorno le note balleranno
al ritmo dei battiti maestri.
Che i colori si tingeranno di
sguardi terrestri.
Capiterà che le stelle
esprimeranno i loro desideri.
I sogni usciranno dai cassetti,
i cuori dai loro labirinti.
Quel giorno il Cielo guarderà giù
per sapere del Tempo.
E la Terra accoglierà il ritorno
di chi era salito.
Capiterà.
Che un giorno,
una mano si poserà sulla vita.
Una nuova Vita inizierà.



Il giorno senza domani

L’occhio sorgerà alle 7.23.
E come sempre mi guiderà
davanti allo specchio
per un po’ di Rimmel
e l’abito appena stirato.
La temperatura sarà corporea.
E la pressione soprattutto psicologica:
9 giorni senza vederci
hanno indebolito quella arteriosa.
Avevi detto che volevi parlarmi.
Che era arrivato il momento:
dovevi spiegarmi.
Non ti riconosco più.
Oggi il tuo volto è coperto.
Da dense nubi di apparenza
che hai deciso di salvare.
Sono previste intense precipitazioni.
Di sogni.
Di speranze.
Di lacrime.
Nulla può fare neanche la protezione
del Santo del giorno.
Le manifestazioni della giornata
si svolgeranno tra un singhiozzo trattenuto
e la ricerca di un fazzoletto.
La Mostra della strategica indifferenza.
La Sagra dei finti silenzi.
La Fiera della regolata freddezza.
Non c’è spazio per i proverbi,
gli oroscopi e gli “accadde”.
C’è solo il tempo per ricordare
i giorni trascorsi,
e per chiedersi cosa fare
di quelli rimasti.

Andrea Ingrosso

lunedì 13 febbraio 2012

Terzo appuntamento con le poesie di Andrea Ingrosso dalla raccolta "Cuoretica"


La recessione

Le ore corrono
come i secondi
quando il sogno consuma
più vita di quanta
ne produce il tempo.
Alla cieca la vita sfugge
come i capogiri della lancetta
di un orologio a pieni giri.
Il superfluo diventa necessario.
Il necessario, implicito.
I secondi avanzano
come le ore
quando il sogno non consuma
tutta la vita
che produce il tempo.
A fatica la vita scende
come sabbia dentro
una clessidra troppo stretta.
Il superfluo più non è necessario.
Il bisogno di necessario
diventa troppo esplicito.


L’idiota

Queste righe
sono state scritte con i denti.
Un colpo di incisivo,
un altro di canino,
in rapida successione.
L’autore,
nel pieno esercizio delle sue deviazioni,
si è mangiato le mani.
Non sapeva di fare male
quando si comportava male.
Non si vedeva da fuori
per capire cosa aveva dentro.
L’autore non aveva un tornaconto.
Ma quando si mette a fare
i conti con la vita,
scopre che la vita apre
un conto alla rovescia.
E’ il rovescio di una vita che l’idiota,
nel pieno esercizio delle sue funzioni,
si è lasciato sfuggire dalle mani.

Andrea Ingrosso

martedì 7 febbraio 2012

Il coaching va a teatro



Un appuntamento sulla ricerca della propria consapevolezza e sviluppo personale; quindi una riflessione su cosa significa tornare a se stessi

Intervista a
Carla Benedetti, Coach professionista di ICF Italia e promotrice della serata


Il coaching e il teatro sono un binomio già sperimentato? Esistono scuole al riguardo, al di là del fatto che il teatro - dalla tragedia greca in avanti - rappresenti una forma di terapia dell'anima?
“Sì, il teatro è usato spesso nei percorsi di sviluppo personale e professionale. Come terapia dell'anima, ma anche come strumento utile per accrescere consapevolezza, senso di squadra e riconoscere il proprio stile di leadership. Quindi il teatro entra nel coaching, ma che io sappia questa è la prima volta che il coaching entra a teatro”.
Come nasce quest'idea e con quale obiettivo?
“La coaching week è un'occasione per i coach professionisti di ICF di parlare di coaching. Io ho lavorato su un progetto che potesse raccontarlo e in qualche modo spiegarlo anche attraverso le emozioni. Il teatro quindi era lo spazio più giusto”.

Perché la scelta della contemporaneità a livello internazionale?
“L'ICF è presente in 104 paesi, la contemporaneità di questi eventi rafforza il senso di comunità e di appartenenza tra i coach professionisti che ne fanno parte e che sanno di dare in questo modo un contributo molto più ampio”.

Qual è il ruolo del pubblico?
“Nella serata che io ho promosso in particolare, il pubblico ha un ruolo attivo. Ci sono alcune occasioni in cui la sua partecipazione aiuta a chiarire elementi importanti del percorso di coaching”.

Chi è in scena?
“Ci sono io come relatore di una presentazione e personaggio del racconto. Insieme a me un collega coach, Pierluigi Ciocci, che rappresenta in qualche e modo il pubblico, dando voce ai dubbi e alle domande che di solito arrivano da chi si avvicina al mondo del coaching”.

Cosa significa per l'io mettere in scena la possibilità?
“Nel coaching non parliamo di io e non usiamo un linguaggio specificamente psicologico, ma certamente per ognuno di noi poter vedere la possibilità rappresentata è un'opportunità di vivere l'esperienza e quindi sentirsi partecipi di qualcosa che appartiene anche a noi”.

Nello specifico, per le donne come agisce il coaching nella rappresentazione teatrale?
“Potrò rispondere dopo la serata. Posso dire però dalla mia esperienza che di solito le donne si avventurano con coraggio fuori dalla zona di comfort”.

Esistono peculiarità uomo-donna?
“Io come coach mi impegno a non giudicare chi ho davanti. Dimenticare che si tratti di un uomo o una donna è un buon punto di partenza. Ogni persona è unica, e davvero non ho mai visto due persone reagire in maniera simile a una stessa situazione. Le persone che decidono davvero di fare qualcosa per sé, riflettono molto prima di farlo, ma poi affrontano con grande energia e soprattutto costanza le sfide che si presentano. Che sia uomo o donna, è la volontà di conoscersi e la disponibilità a cambiare che fa la differenza”.

Tornando al tema centrale, sugli obiettivi: come si può aumentare la consapevolezza con questa arte e tecnica?
“Il teatro richiede osservazione, ascolto interiore, coerenza tra ciò che diciamo e ciò che riusciamo effettivamente a esprimere. Esercitarsi in questo significa acquisire sempre maggiore consapevolezza e significa anche imparare a "vivere" le proprie emozioni. Allenarsi nell'arte del teatro è un po' allenarsi per la vita”.

In che senso c'è un 'tornare ad essere se stessi'? L'io è qualcosa che esiste, talora si perde e si ritrova o piuttosto si costruisce?
“Noi abbiamo un centro che racchiude ciò che siamo veramente, fatto dei nostri valori, passioni, risorse, punti di forza che ci sostengono in qualunque momento, più di quanto riusciamo a immaginare. Attraverso la consapevolezza, chiarezza di obiettivi e il cambiamento di quelle azioni che non ci portano dove vorremmo, noi riusciamo a tornare davvero a noi stessi e a realizzare ciò che più conta per noi. Il coaching è proprio questo, un viaggio per tornare".

lunedì 6 febbraio 2012

Continua la pubblicazione delle poesie inedite di Andrea Ingrosso, dalla raccolta "Cuoretica"



La mappa

Ho trovato una mappa.
In un posto affollato,
pieno di voci.
E’ apparsa all’improvviso sulla mia rotta.
Io la guardo, lei mi sfugge.
Il mio sguardo si alza in volo.
Il suo si abbassa e mi dirotta.
Poi si ferma e si chiude.
Dispiego la mappa.
E inizio a leggere.
Punti cardinali.
Nord, Sud, Est e Ovest
di quell’Isola Misteriosa,
che si affaccia tra il sipario
delle palpebre.
L’Isola Misteriosa è bagnata
dal Mare delle Lacrime.
La corrente Gioia e
la corrente Dolore,
la raggiungono a ondate alternate.
Sulle coste soffia il vento Sospiro.
E dall’entroterra,
l’unico rumore che a volte proviene
è un Urlo.
Sull’isola si è insediata
la Civiltà della luce.
Ma non c’è traccia della sua fonte.


Geometria

In molti all’inizio
disegniamo la relazione.
Quella sottile
linea diretta
dove va e viene
il primo amore.
In molti di meno poi
manteniamo la passione.
Quella incontenibile
iperbole spessa
che traduce
l’irrisolvibile equazione.
In pochi abbiamo alla fine la forza
di superare la delusione.
Quella incisiva
parabola fredda
che discende mentre
cerchiamo una spiegazione.
Ma prima o poi
tutti sentiremo il bisogno
di un nuovo abbraccio.
Di quella raggiante
circonferenza stretta
che ci trasforma
in un mazzo di fiori.

Adrea Ingrosso

martedì 31 gennaio 2012

Ti voglio bene Tokyo




di Cesare Veneziani

E’ notte. Da dove mi trovo posso sentire gli aerei che atterrano e decollano. Stasera lo fanno in continuazione. Posso vedere le luci intermittenti dei faretti sulle ali disegnare un percorso dritto e fluorescente in mezzo al cielo scuro, mentre dal divano sbircio tra le foto che abbiamo piazzato sotto il vetro del tavolino dove poggiamo i piedi la sera. Ci sono tre posaceneri nel raggio di mezzo metro quadro e, completamente rassegnato all’idea che Bill Murray non riuscirà mai a dire quel che deve alla sua Scarlett, comincio a pensare che smettere di fumare potrebbe essere una bella idea. In futuro. Penso pure che la mia Scarlett io ce l’ho: alte uguali, con gli occhi chiari e la bocca carnosa. La mia non è molto famosa in effetti, però è intelligente e sensibile e piena di slanci. E poi non vuole perdermi e vuole fare i figli, mi sembra di aver capito. Qualche volta lo dice, magari nel vaneggio domenicale delle tre del pomeriggio, quando ancora odoriamo di birra e sesso tantrico.
La mia ragazza certe volte mi spaventa. Ha tanto di quel coraggio istintivo quando una piccola dose sveglierebbe molta gente, compreso Adolfo. Ma questa è decisamente un’altra storia, che mi sfiora, ma non c’entra. Io non lo so se ce l’ho questa linfa, il coraggio forse, ma non è nemmeno questo il punto.
Il punto è che quando ieri mi hanno detto “Sai che stai vivendo proprio dei bei rapporti, perché non provi a scriverci qualcosa sopra?” a me è preso il panico, letteralmente, anche se in quel momento non ho avuto nulla da obiettare. Anzi, sembravo quasi d’accordo. Ero diventato muto. E non ditemi che i muti sembrano contrari alle iniziative pratiche perché non è vero.
Ed eccomi qui, a pensare ai rapporti belli. Anche quelli difficili, dove freddezza e malessere governano l’aria e promettono solo gelo e distanza, paura e silenzi imperforabili. In un certo senso (lontano, ma non astratto) anche quelli sono rapporti importanti. Prima, invece, per me era diverso. Alla prima occasione si buttava tutto in vacca. Si urlavano spropositi. Si usavano mezzi invisibili camuffati da vita, come il gioco e la coca, l’alcool e il sesso vuoto. Ginnastica da rete satellitare. Ma soprattutto ci attaccavamo sempre a lei, all’ironia, che se usata nel modo sbagliato sa essere letale come un AK 47 in mezzo a una folla di pacifisti. Così i rapporti, in fondo il fine più grande, diventavano il mezzo per guardare il baratro da sottoterra, e follemente dire: “Si sta meglio quaggiù tutto sommato, più riparato”.
Follia. La Tokyo del film e le sue luci pirotecniche mi inglobano nello schermo a quarantadue pollici che curiosamente è il mio. O forse dovrei dire nostro, visto che l’abbiamo avuto in dono dalla nonna della mia fidanzata, qualche mese fa, poco prima che morisse. A me la tele non è mai piaciuta troppo, lo devo dire, ma se la mia ragazza pensasse che questa spara-immagini fosse tutta sua credo che ci rimarrei male.
Nonna Silvia se ne è andata quest’estate a ottantadue anni. Noi abbiamo sgomberato la casa e aiutato i figli - tra cui la mamma della mia ragazza - a fare il trasloco, e poi la tele è finita a noi. Ecco la storia. Una parte.
Eravamo senza tele da un pezzo, perciò le sono più grato del dovuto. Ironico che proprio una donna di quell’età ci abbia lasciato l’ultimo ritrovato di tecnologia giapponese. Comunque mi sta bene, perché un capolavoro di film come questo è meglio vederlo in un grande schermo.
“I film basati sulle immagini vanno visti al cinema, oppure in un grande televisore al plasma”. Lo dice sempre la mia amica F., che i film sono il suo pane, specie quelli vecchi. F. adesso non mi parla. Non mi ha voluto dire il perché ma credo pesi come un macigno la mia assenza non forzata alla festa d’inaugurazione della sua nuova casa. Quando mi ha puntato il dito contro io volevo morderglielo, volevo urlare qualcosa tipo che a me delle case non è mai fregato un cazzo (sul serio), che sono sempre stato in affitto e che la casa di proprietà mi sembra un cliché occidentale, vecchio e pure un po’ fascista. Ma adesso che è passato del tempo, anche se a me della casa in sè me ne frega sempre poco, ho capito che per lei era importante, e che avrei dovuto condividere meglio questa sua realizzazione. Ma non l’ho capito prima, no. L’ho capito poi, e questo cambia tutto.
Ma che ci devo fare se su certe cose sono così lento e pure mezzo cieco? E questo nei rapporti pesa, come quando la mia piccola Scarlett ha dimenticato di ascoltarmi alla radio e il mio ego è andato a farsi fottere con tutto il mio amore per i suoi occhi blu, tentando il suicidio in quell’angolo di Tevere ancora mezzo buio (mica io, l’ego). Accadeva un mese fa. Insomma, ci sono rimasto male. Poi lei si è spiegata e abbiamo fatto pace, come la vorrei fare con F.
Ora mi chiedo cosa sia questa cosa che mi punge l’aorta. Non penso di avere un tumore, né malattie gravi. Non è nemmeno la follia, che è gravissima ma non è fisica… mentre adesso io il dolore ce l’ho fisico.
Vorrei sentirmi più evoluto di prima solo perché ho appena spento una Marlboro, lo confesso, perché ho acceso il portatile e contemporaneamente ho stoppato questo bel film in un Sony da mille pollici (comunque Bill Murray che prova i suoi swing su un campo verde pisello con coppola a quadri e il monte Fuji come sfondo merita un fermo immagine di almeno due minuti, se ti ritrovi una televisione del genere in salotto). E in questa abbondanza da ventunesimo secolo e piena crisi globale non posso nemmeno considerarmi ricco, che la mia macchina è del novantanove, con le cinte rotte e un faro fuori uso e dio solo sa cos’altro, e non va quasi più e ne devo comprare una nuova, ma non ho i soldi.
Non riesco a definire la ricchezza.
Un pizzico di solitudine la provo, che non è bello quando vuoi chiamare F. e dirle solo “stronza” ma anche “ti voglio bene” e proprio non riesci a farlo, e allora ti ritrovi a pensare ai rapporti che non funzionano e a quelli che sono andati affanculo. Colpa mia, colpa sua: fa lo stesso. Quattro pareti e un plaid verde acido, un buon libro sul comodino - si sarà mosso? - il caffè per domattina e tante vitamine gialle messe in fila sul lavello. Mi dico: “Dai che ci sei, bello. Sei nella macchina della vita. Te la devi godere, se no cosa scriverai sul tuo social network preferito?”
Ripenso a mio fratello, quello coi soldi e la villa, quello con cui le cose non funzionano ormai da un po’. Vecchie ruggini. Soldi mai restituiti. Penso all’altra sera, di ritorno dallo stadio e davanti a una birra di troppo, quando mi ha confessato di essere ancora affranto per la morte del suo grande amico G..
“Capisco” ho detto io.
“Sì ma non ho voglia di parlarne. Voglio comprare il suo casale” ha detto mio fratello, poggiando la birra sul tavolo come fosse una clessidra.
“Perché?”
“Voglio farne un agriturismo con gli alberi da frutta, l’orto e tutto il resto” ha detto lui, convinto “niente di speciale. Una cosa carina in memoria di G.”.
“Mi sembra una bella idea…”
“Sì?”
“Sì, davvero. Ma chi se ne occuperebbe?”
“Io”.
“E come pensi di fare con il tuo lavoro?”
“Ne ho le palle strapiene di quei pupazzi incravattati che dicono cose tipo brand, trend, partnership, misunderstanding, pied à terre e altre cazzate del genere… capisci?”
“Sì certo, sai che li odio, ma perché vuoi fare questa cosa?”
Mio fratello ha serrato le labbra e mi ha preso le pupille tra le sue. Le ha strette forte e poi una piccola lacrima gli ha rigato la faccia. La sigaretta non c’era più. La luce del ristorante era quasi scomparsa, più bassa di quella di un salva vita. Aspettavo una risposta, ma era chiaro che poteva anche non dire niente. Ho immaginato il dolore che si prova a perdere una persona così vicina, un amico.
Silenzio.
Ho pensato a G. e mio fratello, insieme, quel giorno che si sono venduti la Vespa per andare a giocarsi tutto al casinò di Venezia, e poi ho rivisto mio fratello portare la bara del suo caro amico, il giorno del funerale. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, sbarrati e senza luce. Non aveva nemmeno l’energia per piangere. Una forza disperata lo muoveva verso la macchina come una marionetta mentre il sole di fine Luglio ci richiamava scioccamente alle vacanze e al calciomercato. Quel giorno, alla fine, mio fratello disse: “G. è morto” e abbracciandomi aggiunse “Ti voglio bene”. Ma non c’è niente di terreno che possa sospingerti quando la vita si tinge di nero.
“Prima di morire, G. mi ha chiesto quale fosse la cosa più bella che avessi creato nella vita” ha ripreso mio fratello, riportandomi a noi e alle nostre birre calde.
“E tu che gli hai detto?”
“A parte i miei figli?”
“Sì”.
“L’orto”.
“L’orto?”
“L’orto fratellì” ha ripetuto mio fratello, sicuro.
“E lui che ti ha detto?”
“Ha detto ‘bravo, che i figli crescono e gli amici muoiono’, invece gli orti risorgono sempre. Ha detto così”.
Ho pensato: ti voglio bene fratello, come ne voglio a questa Tokyo che mi attira a sé come una calamita. Chissà se trovo il modo di andarci.

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma
Ilaria Guidantoni insieme all'attore teatrale Giuseppe Bisogno, che ha curato le letture, e al musicista Edoardo Inglese, autore di una selezione di brani musicali

"Tunisi, taxi di sola andata" a Milano, 19 aprile 2012

"Tunisi, taxi di sola andata" a Milano, 19 aprile 2012
Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata a Milano", libreria Milano Libri. Insieme all'autrice, Ilaria Guidantoni, il presidente del Touring Club Italiano, Franco Iseppi, e Laura Silvia Battaglia, inviata esteri di Avvenire. Letture a cura dell'attore Michele Mariniello

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", libreria N'Importe Quoi di Roma, 13 aprile 2012

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", libreria N'Importe Quoi di Roma, 13 aprile 2012
Ilaria Guidantoni ospite di RADIOLIVRES, con Vittorio Macioce, caporedattore de' Il Giornale, ed Edoardo Inglese,"musicante", in una serata di parole e musica

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso il Rotary Club di Marina di Massa, 29 marzo

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso il Rotary Club di Marina di Massa, 29 marzo
L'autrice tra Lorenzo Veroli, il Segretario del Club e Chiara Ercolino

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso la libreria Griot di Roma, 28 marzo 2012

Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso la libreria Griot di Roma, 28 marzo 2012

Presentazione "Tunisi, taxi di sola andata", Roma, Sala stampa Camera dei Deputati, 28 marzo 2012

Presentazione "Tunisi, taxi di sola andata", Roma, Sala stampa Camera dei Deputati, 28 marzo 2012
Insieme all'autrice, Ilaria Guidantoni, l'on. Elisabetta Zamparutti (Radicali Italiani) e il giornalista tunisino Salah Methnani, inviato di Rainews24

Giovedi 1° marzo 2012, alla Centrale Montemartini di Roma, dalle ore 18.30 presentazione di "365D"

Giovedi 1° marzo 2012, alla Centrale Montemartini di Roma, dalle ore 18.30 presentazione di "365D"
Marzia Messina, ideatrice del progetto e realizzatrice per "Prima che sia buio" della foto dell'autrice

Il fotografo di 365D Sham Hinchey

Il 29 agosto di 365D

Con Raffaella Fiorito, mia vicina di calendario

Presentazione di "Prima che sia Buio", Galleria d'arte Barbara Paci, Pietrasanta, 16 Luglio 2011

Presentazione di "Prima che sia Buio", Galleria d'arte Barbara Paci, Pietrasanta, 16 Luglio 2011

Metti una sera d'estate, prima che sia buio...

"Prima che sia buio" incontra l'arte alla Galleria Barbara Paci di Pietrasanta

Ilaria Guidantoni e Barbara Paci

La scrittrice con i genitori

La scrittrice tra Daniela Argentero e Barbara Paci

La scrittrice tra gli amici

Leggendo "I giorni del gelsomino" con il pittore Agostino Rocco

Leggendo "Colibrì"

L'autrice con Agostino Rocco

A Jorio, dedicato a Pistoia, alla Toscana e a una città d'arte

Tra Firenze e Pistoia

Con il pittore Agostino Rocco tra parole e immagini