martedì 31 gennaio 2012

Ti voglio bene Tokyo




di Cesare Veneziani

E’ notte. Da dove mi trovo posso sentire gli aerei che atterrano e decollano. Stasera lo fanno in continuazione. Posso vedere le luci intermittenti dei faretti sulle ali disegnare un percorso dritto e fluorescente in mezzo al cielo scuro, mentre dal divano sbircio tra le foto che abbiamo piazzato sotto il vetro del tavolino dove poggiamo i piedi la sera. Ci sono tre posaceneri nel raggio di mezzo metro quadro e, completamente rassegnato all’idea che Bill Murray non riuscirà mai a dire quel che deve alla sua Scarlett, comincio a pensare che smettere di fumare potrebbe essere una bella idea. In futuro. Penso pure che la mia Scarlett io ce l’ho: alte uguali, con gli occhi chiari e la bocca carnosa. La mia non è molto famosa in effetti, però è intelligente e sensibile e piena di slanci. E poi non vuole perdermi e vuole fare i figli, mi sembra di aver capito. Qualche volta lo dice, magari nel vaneggio domenicale delle tre del pomeriggio, quando ancora odoriamo di birra e sesso tantrico.
La mia ragazza certe volte mi spaventa. Ha tanto di quel coraggio istintivo quando una piccola dose sveglierebbe molta gente, compreso Adolfo. Ma questa è decisamente un’altra storia, che mi sfiora, ma non c’entra. Io non lo so se ce l’ho questa linfa, il coraggio forse, ma non è nemmeno questo il punto.
Il punto è che quando ieri mi hanno detto “Sai che stai vivendo proprio dei bei rapporti, perché non provi a scriverci qualcosa sopra?” a me è preso il panico, letteralmente, anche se in quel momento non ho avuto nulla da obiettare. Anzi, sembravo quasi d’accordo. Ero diventato muto. E non ditemi che i muti sembrano contrari alle iniziative pratiche perché non è vero.
Ed eccomi qui, a pensare ai rapporti belli. Anche quelli difficili, dove freddezza e malessere governano l’aria e promettono solo gelo e distanza, paura e silenzi imperforabili. In un certo senso (lontano, ma non astratto) anche quelli sono rapporti importanti. Prima, invece, per me era diverso. Alla prima occasione si buttava tutto in vacca. Si urlavano spropositi. Si usavano mezzi invisibili camuffati da vita, come il gioco e la coca, l’alcool e il sesso vuoto. Ginnastica da rete satellitare. Ma soprattutto ci attaccavamo sempre a lei, all’ironia, che se usata nel modo sbagliato sa essere letale come un AK 47 in mezzo a una folla di pacifisti. Così i rapporti, in fondo il fine più grande, diventavano il mezzo per guardare il baratro da sottoterra, e follemente dire: “Si sta meglio quaggiù tutto sommato, più riparato”.
Follia. La Tokyo del film e le sue luci pirotecniche mi inglobano nello schermo a quarantadue pollici che curiosamente è il mio. O forse dovrei dire nostro, visto che l’abbiamo avuto in dono dalla nonna della mia fidanzata, qualche mese fa, poco prima che morisse. A me la tele non è mai piaciuta troppo, lo devo dire, ma se la mia ragazza pensasse che questa spara-immagini fosse tutta sua credo che ci rimarrei male.
Nonna Silvia se ne è andata quest’estate a ottantadue anni. Noi abbiamo sgomberato la casa e aiutato i figli - tra cui la mamma della mia ragazza - a fare il trasloco, e poi la tele è finita a noi. Ecco la storia. Una parte.
Eravamo senza tele da un pezzo, perciò le sono più grato del dovuto. Ironico che proprio una donna di quell’età ci abbia lasciato l’ultimo ritrovato di tecnologia giapponese. Comunque mi sta bene, perché un capolavoro di film come questo è meglio vederlo in un grande schermo.
“I film basati sulle immagini vanno visti al cinema, oppure in un grande televisore al plasma”. Lo dice sempre la mia amica F., che i film sono il suo pane, specie quelli vecchi. F. adesso non mi parla. Non mi ha voluto dire il perché ma credo pesi come un macigno la mia assenza non forzata alla festa d’inaugurazione della sua nuova casa. Quando mi ha puntato il dito contro io volevo morderglielo, volevo urlare qualcosa tipo che a me delle case non è mai fregato un cazzo (sul serio), che sono sempre stato in affitto e che la casa di proprietà mi sembra un cliché occidentale, vecchio e pure un po’ fascista. Ma adesso che è passato del tempo, anche se a me della casa in sè me ne frega sempre poco, ho capito che per lei era importante, e che avrei dovuto condividere meglio questa sua realizzazione. Ma non l’ho capito prima, no. L’ho capito poi, e questo cambia tutto.
Ma che ci devo fare se su certe cose sono così lento e pure mezzo cieco? E questo nei rapporti pesa, come quando la mia piccola Scarlett ha dimenticato di ascoltarmi alla radio e il mio ego è andato a farsi fottere con tutto il mio amore per i suoi occhi blu, tentando il suicidio in quell’angolo di Tevere ancora mezzo buio (mica io, l’ego). Accadeva un mese fa. Insomma, ci sono rimasto male. Poi lei si è spiegata e abbiamo fatto pace, come la vorrei fare con F.
Ora mi chiedo cosa sia questa cosa che mi punge l’aorta. Non penso di avere un tumore, né malattie gravi. Non è nemmeno la follia, che è gravissima ma non è fisica… mentre adesso io il dolore ce l’ho fisico.
Vorrei sentirmi più evoluto di prima solo perché ho appena spento una Marlboro, lo confesso, perché ho acceso il portatile e contemporaneamente ho stoppato questo bel film in un Sony da mille pollici (comunque Bill Murray che prova i suoi swing su un campo verde pisello con coppola a quadri e il monte Fuji come sfondo merita un fermo immagine di almeno due minuti, se ti ritrovi una televisione del genere in salotto). E in questa abbondanza da ventunesimo secolo e piena crisi globale non posso nemmeno considerarmi ricco, che la mia macchina è del novantanove, con le cinte rotte e un faro fuori uso e dio solo sa cos’altro, e non va quasi più e ne devo comprare una nuova, ma non ho i soldi.
Non riesco a definire la ricchezza.
Un pizzico di solitudine la provo, che non è bello quando vuoi chiamare F. e dirle solo “stronza” ma anche “ti voglio bene” e proprio non riesci a farlo, e allora ti ritrovi a pensare ai rapporti che non funzionano e a quelli che sono andati affanculo. Colpa mia, colpa sua: fa lo stesso. Quattro pareti e un plaid verde acido, un buon libro sul comodino - si sarà mosso? - il caffè per domattina e tante vitamine gialle messe in fila sul lavello. Mi dico: “Dai che ci sei, bello. Sei nella macchina della vita. Te la devi godere, se no cosa scriverai sul tuo social network preferito?”
Ripenso a mio fratello, quello coi soldi e la villa, quello con cui le cose non funzionano ormai da un po’. Vecchie ruggini. Soldi mai restituiti. Penso all’altra sera, di ritorno dallo stadio e davanti a una birra di troppo, quando mi ha confessato di essere ancora affranto per la morte del suo grande amico G..
“Capisco” ho detto io.
“Sì ma non ho voglia di parlarne. Voglio comprare il suo casale” ha detto mio fratello, poggiando la birra sul tavolo come fosse una clessidra.
“Perché?”
“Voglio farne un agriturismo con gli alberi da frutta, l’orto e tutto il resto” ha detto lui, convinto “niente di speciale. Una cosa carina in memoria di G.”.
“Mi sembra una bella idea…”
“Sì?”
“Sì, davvero. Ma chi se ne occuperebbe?”
“Io”.
“E come pensi di fare con il tuo lavoro?”
“Ne ho le palle strapiene di quei pupazzi incravattati che dicono cose tipo brand, trend, partnership, misunderstanding, pied à terre e altre cazzate del genere… capisci?”
“Sì certo, sai che li odio, ma perché vuoi fare questa cosa?”
Mio fratello ha serrato le labbra e mi ha preso le pupille tra le sue. Le ha strette forte e poi una piccola lacrima gli ha rigato la faccia. La sigaretta non c’era più. La luce del ristorante era quasi scomparsa, più bassa di quella di un salva vita. Aspettavo una risposta, ma era chiaro che poteva anche non dire niente. Ho immaginato il dolore che si prova a perdere una persona così vicina, un amico.
Silenzio.
Ho pensato a G. e mio fratello, insieme, quel giorno che si sono venduti la Vespa per andare a giocarsi tutto al casinò di Venezia, e poi ho rivisto mio fratello portare la bara del suo caro amico, il giorno del funerale. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, sbarrati e senza luce. Non aveva nemmeno l’energia per piangere. Una forza disperata lo muoveva verso la macchina come una marionetta mentre il sole di fine Luglio ci richiamava scioccamente alle vacanze e al calciomercato. Quel giorno, alla fine, mio fratello disse: “G. è morto” e abbracciandomi aggiunse “Ti voglio bene”. Ma non c’è niente di terreno che possa sospingerti quando la vita si tinge di nero.
“Prima di morire, G. mi ha chiesto quale fosse la cosa più bella che avessi creato nella vita” ha ripreso mio fratello, riportandomi a noi e alle nostre birre calde.
“E tu che gli hai detto?”
“A parte i miei figli?”
“Sì”.
“L’orto”.
“L’orto?”
“L’orto fratellì” ha ripetuto mio fratello, sicuro.
“E lui che ti ha detto?”
“Ha detto ‘bravo, che i figli crescono e gli amici muoiono’, invece gli orti risorgono sempre. Ha detto così”.
Ho pensato: ti voglio bene fratello, come ne voglio a questa Tokyo che mi attira a sé come una calamita. Chissà se trovo il modo di andarci.

2 commenti:

  1. bello, e toccante. straordinariamente contemporaneo.

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  2. Che bello, che emozioni, rapide e fortissime. Grazie

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Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma

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