mercoledì 4 gennaio 2012

Non basta giocare


di Lavinia Collodel

Avete mai fatto l’amore su un campo da golf? Beh, io sì. E su un campo da tennis? … non ho giocato abbastanza per arrivarci. Ma questa non è una storia d’amore.
Il circolo era formale, uh se lo era. Non so se avete presente la vita da club house. A certi può piacere, in fondo possono nascere amicizie, si intessono relazioni di lavoro, sì, public relation. Me ne sono sempre stata per i fatti miei, tra la fine di una gara e la premiazione. A me interessava giocare.
Non che fossi scratch. Un modesto 12 di hcp, giusto per stare in prima categoria. Per poter partecipare alle gare nazionali. Quelle in cui c’erano i giocatori veri, con uno swing da sogno, dall’arco ampio, i polsi carichi nel back, i gomiti vicini, un grip aggressivo nel passaggio delle mani, la zolla che si stacca perfetta all’impatto con la pallina, un suono pieno e poi un sibilo che taglia il vento, per arrivare ad un finish da scultura ellenistica.
Forse sono sempre stata più un’esteta che una giocatrice, lo devo ammettere. Mi chiamavano orologio svizzero. Il mio gioco era corto e preciso. Avevo tecnica, tenacia, sapevo leggere il campo abbastanza bene, un po’ meno l’avversario nei math play. Tic tic tic tic. E mi usciva un par. Un piccolo errore, e rimanevo nel bogey. Ma difficilmente avevo il culo, la lunghezza, il non sapevo cosa, per acchiapparmi con coraggio un birdie.
Non che andassi a farmi la passeggiata della domenica. No, questo mai. La gara era sacrosanta e da prendere con tutto il rispetto.
Non avevo abbastanza grinta. Tendevo sempre a prendere un ferro più lungo del necessario. Voi mi direte che sarà stata la sicurezza a mancarmi, più di ogni altra cosa. E’ vero. Ma è ancor più vero che non era tanto la sicurezza del mio gioco in sé a mancarmi, quanto una sicurezza più profonda, intima, che si trova in quel punto dove noi conosciamo noi stessi.
Buca 11. Par 3, corto. Non ricordo i metri esattamente, intorno ai 125. Tee di partenza alto su una collina, green in basso. In mezzo, un rough di quelli dove sperate di non finire mai, e un ostacolo d’acqua frontale, un fiumiciattolo difficile da far finta di non vedere. Il green si erge a vulcano da una corona di piccoli bunker tutti intorno eccetto la curva protetta dall’acqua. Dietro al green, un rough duro, e qualche rado pino marittimo molto alto, dalla chioma ad ombrello. Una buca non esageratamente difficile, ma delicata. Soprattutto perché viene dopo la pausa delle prime 9 buche, e la tensione si è allentata per un attimo. Su questa buca ho giocato di tutto, dal legno 5 al ferro 9. Vento a favore o vento contro modificavano il gioco in un modo da non crederci. Ho usato il 9 nel mio momento di massima personalità, per quanta ne potessi avere. Il legno, tirato mollemente come fosse un approccio, per evitare che la pallina corresse troppo sul green e scappasse in un bunker. Una vera schifezza di attacco. Al ferro 4 non riuscivo a dare il backspin sul green, che invece con il 5 e il 7 non andava male. Con il ferro 8 ho avuto momenti di amore e indifferenza, perché un po’ ibrido. Con il 9 sarei potuta andare ovunque. In senso buono, dico. Il 9 però, solo se c’era qualcuno che mi incoraggiasse, come il mio maestro, il mio ragazzo, un compagno di gioco vicino a me e sincero, certamente non un gufo o un rosicone - che sembra quasi un animale raro, come tanti ce ne sono, liberi di scorrazzare per i prati.
Confesso tristemente che non mi ero ancora trovata. Se non ero consapevole di me stessa, come potevo esserlo del mio gioco?
All’epoca, non ne ero cosciente, naturalmente.
Così mi giustificavo dicendomi che ero magrolina e bassetta, senza le possibilità fisiche di raggiungere una certa potenza, necessaria per arrivare a buoni livelli. Mi ero posta dei falsi limiti invalicabili. Evidentemente non avevo ancora mai visto Maradona giocare a calcio. Ma, allora, mi sentivo come una giocatrice di pallavolo troppo bassa, una ginnasta in sovrappeso, uno sciatore troppo leggero. Non ascoltavo neppure tutte le malelingue che sdegnavano il golf come uno sport da vecchi. Ero fermamente convinta che bisognasse avere un gran fisico per fare risultato.
Mi mancavano le potenzialità.
Avevo dimenticato – o mai trovato - tutto ciò che sta là dentro in fondo, chissà dove, che non è il cuore e ancor meno la testa.
Buca 16. Par 4. Green facilmente raggiungibile in 2 anche per me, dunque decisamente corta, come buca. Il fairway parte presto, dritto fino a tre quarti della buca, quando piega a destra ad angolo retto, nascondendo il green dietro una collina di rough. Tutto il lato destro della buca è off limits, non che ci siano i paletti bianchi sul serio, ma meglio evitare: alberi, erba alta, e scarpata che per via degli alberi non ti fa più risalire. Nel match play, per me è stata sempre una buca decisiva. Giocando contro chi è più o meno al vostro stesso livello, mancando due buche alla fine, si è facilmente 1 o 2 up o down. E quindi ci si gioca tutto, o molto, alla 16. Quella volta giocavo la Coppa del Presidente, la gara più importante interna del circolo. Il mio avversario è del mio stesso livello, ce la siamo battuta per tutte le 15 buche precedenti. Ma sul tee del 16 sono 1 down. Lui ci tiene molto. E’ nervoso sul drive, e gioca bene. Io non so quanto ci tenessi, giocavo più contro il campo e contro me stessa, mi interessava quasi più giocare bene che vincere, e non è l’approccio dei migliori, in un match play uno-contro-uno. Evitando qualsiasi tipo di ostacolo, ci troviamo sul green entrambi con 2 colpi. Mi trovo più lontana dalla buca, dunque ho la precedenza. Tiro un putt ad avvicinarmi, in sicurezza. Lui studia le pendenze con cura, accarezza il taglio dell’erba, percorre avanti e indietro il percorso immaginario della pallina. Mi guarda. Si accovaccia dietro la buca e osserva il percorso dalla parte opposta. Si alza. Mi guarda di nuovo. Ha capito cosa fare. Tira. Buca. Birdie per lui.
Non vi sto a dire cosa abbiamo fatto alla 17, ma ho perso, alla fine, 2 down.
Non gioco da più di dieci anni. Ora vedo meglio, nonostante la miopia incalzante. Non me ne sto per i fatti miei, adoro scoprire le persone.
Ma se sento dell’erba appena tagliata, l’odore mi fa chiudere gli occhi, inebriata; se salgo sull’autobus, afferro saldamente il sostegno a due mani, sovrapponendo il mignolo della destra all’indice della sinistra; se piove, vado senza ombrello, con piacere; se c’è vento, ne cerco con il viso la direzione, e ne annuso l’intensità.

La foto è di Alessia Cervini

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Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", 16 maggio 2012, libreria N'Importe Quoi, Roma

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"Tunisi, taxi di sola andata" a Milano, 19 aprile 2012

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Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata", libreria N'Importe Quoi di Roma, 13 aprile 2012

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Presentazione di "Tunisi, taxi di sola andata" presso la libreria Griot di Roma, 28 marzo 2012

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Presentazione "Tunisi, taxi di sola andata", Roma, Sala stampa Camera dei Deputati, 28 marzo 2012

Presentazione "Tunisi, taxi di sola andata", Roma, Sala stampa Camera dei Deputati, 28 marzo 2012
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Giovedi 1° marzo 2012, alla Centrale Montemartini di Roma, dalle ore 18.30 presentazione di "365D"

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