giovedì 3 novembre 2011

Sidi Bouzid, inizio e fine di una rivoluzione?

di Andrea de Georgio, Free lance
da un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Foglio”

Sidi Bouzid (Tunisia) - I muri di Sidi Bouzid parlano. “Gloria ai martiri”,
“Restate in piedi tunisini, tutto il mondo è fiero di voi”, “Libertà è
uguaglianza”, “Combatteremo fino alla vittoria o fino alla morte”, “Alzati
in piedi e combatti per i tuoi diritti”, “RCD fuori!” (Rcd era il partito
del regime). Qui è scoppiata la rivoluzione dei gelsomini che ha portato
alla cacciata del rais di Tunisi, Ben Ali. Qui è nata la primavera araba,
in un giorno di dicembre, “dovete scrivere che la rivoluzione è cominciata
qua il 17 dicembre e non a Tunisi il 14 gennaio, come dicono tutti”, ci
dicono. Ci sono tante scritte che inneggiano allo “shaid”, martire, Mohamed
Bouazizi, il giovane venditore ambulante che, dandosi fuoco nella piazza
che ora gli è dedicata, ha fatto esplodere la rivolta. Questa cittadina
nell’entroterra rappresenta l’altro volto della Tunisia, quella che non ha
gli sfarzi della capitale né il mare e il turismo. E’ un piccolo centro
rurale, l’immondizia è dappertutto, tassi di disoccupazione e povertà che
non lasciano speranza, soprattutto ai giovani. Questa città, come Kasserine e
Gafsa – stessa regione, stessi problemi – sono il centro della rivolta
contro il potere centrale: era così quando c’era Bourghiba, è stato così
con Ben Ali, è così oggi, nella nuova Tunisia di Ennahdha, il Partito
islamico che ha vinto le elezioni del 23 ottobre.
Nella settimana dopo il voto, l’Isie – l’Istance Supérieure Indépendante
pour les Eléctions – ha deciso di invalidare i voti ottenuti a Sidi Bouzid
e in altri cinque governatorati da Aridha Asshabiyya (Petizione popolare),
il movimento guidato da Hacmi Hamdi che si è imposto a sorpresa al terzo
posto nei risultati elettorali. Ex esponente di Ennahdha, Hamdi è un
miliardario nato a Sidi Bouzid che da anni vive in esilio volontario a
Londra: ha fatto campagna elettorale dagli schermi della sua tv privata al
Mustakella, ha conquistato un sacco di voti ed è stato sanzionato a seguito
di irregolarità legate ai finanziamenti stranieri e alla presenza di
candidati appartenenti all’ex partito di regime, l’Rcd. I leader di Ennahdha
e del Cpr (Congresso per la Repubblica, secondo partito, 30 seggi
nell’Assemblea costituente contro i 90 degli islamisti) hanno criticato i
voti di Sidi Bouzid andati al partito di Hamdi, e così è scoppiata la
rivolta.
Venerdì scorso sembrava una manifestazione pacifica. Poi sparuti gruppi di
giovani hanno saccheggiato, distrutto e bruciato il municipio, la base
della Guardia nazionale, il Palazzo di Giustizia, una sede ministeriale,
l’ufficio di Ennadha e due ong. E’ stato imposto il coprifuoco, l’esercito
è entrato in città con una decina di mezzi pesanti e due grossi camion
pieni di soldati. Hussein Jellaly, gentile impiegato statale sulla
quarantina, dice al Foglio che lui ha votato per Ennahda, come il suo amico
Rachid che siede accanto a lui in un tipico salotto arabo tutto archi,
fiori finti e quadretti kitch. La moglie Hana, con il velo e lo sguardo
gentile, e un nipote di 24 anni laureato in ingegneria agronoma
(disoccupato) hanno votato per Petitzione popolare. Hana contraddice spesso
il marito, adducendo l’argomentazione più comune fra la gente di Sidi
Bouzid: “Hacmi (qui lo chiamano tutti confidenzialmente per nome, ndr) è
figlio della nostra città. E’ un buon musulmano ed è ricco. Farà il bene
della nostra gente, portando nella capitale le nostre richieste e i nostri
problemi. Tutti gli altri politici se ne fregano”. “Non è vero. E’ amico
degli Rcdisti – risponde il marito – Soltanto Ennahdha ha da sempre fatto
opposizione al regime, la gente lo sa bene e infatti lo hanno votato in
tanti”. La tv è accesa, quando compare il volto di Rachid Gannouchi, il
leader di Ennahdha, cala il silenzio. Promette di creare un polo industriale
nella regione di Sidi Bouzid in modo da creare nuovi posti di lavoro, a
Hussein brillano gli occhi: “E’ la prima volta che sento un politico dire
una cosa del genere. Forse non abbiamo votato invano, inshallah”. Tra i
vari interventi in onda su Hannibal tv, la rete locale privata più seguita
nel paese, arriva una telefonata di Hacmi Hamdi che, oltre alla solita
retorica coranica e populista e gli attacchi a tutti, invita la gente di
Sidi Bouzid alla calma, annunciando di voler fare marcia indietro rispetto
alla decisione di ritirare tutti i candidati di Aridha. La protesta è
finita. Rimane lo strascico di rabbia che queste elezioni, le prime libere
della storia della Tunisia, lasciano soprattutto nei giovani, che temono
che la loro rivoluzione venga tradita – che sia già stata tradita.
Il giorno dopo la rivolta, fra macchine bruciate, panchine di pietra
fracassate e lampioni divelti, la gente di Sidi Bouzid vuole spazzare via i
pregiudizi e la cattiva pubblicità. Zeyd Abdallah, un avvocato, dice: “E’
una barbarie inaccettabile. Qualcuno ha approfittato della rabbia della
gente per far sparire i documenti che provavano i loro crimini. Hanno
pagato giovani di fuori per fare tutto questo. Molto probabilmente sono
stati gli ex del regime, ma non abbiamo prove. Hanno bruciato anche il
comune. L’intera storia della nostra città è andata in fumo in poche ore.
Sono come barbari”. Non si sa con certezza se dietro alla degenerazione
violenta della protesta di Sidi Bouzid ci siano effettivamente elementi
dell’ex dittatura, ma certo la tensione in Tunisia fa il gioco di
chi sostiene che il paese non è più sicuro dopo la cacciata del despota. Ma
se a Tunisi Ennahdha si affretta a promettere una coalizione forte con gli
altri due principali partiti usciti dalle urne (Cpr e Attakattol, movimento
di Mustafa Ben Jaafar), un governo tecnico di unità nazionale entro massimo
un mese e una nuova Costituzione, la piazza di Sidi Bouzid solleva una
questione centrale nel processo di transizione. Come si fa a ripulire il
paese dagli ex del regime senza incorrere in una caccia alle streghe
pericolosa per il futuro economico e politico della nazione (vedi alla voce
“debathizzazione” in Iraq)? L’Isie ha stilato negli ultimi mesi una lista
di oltre 400 Rcdisti che ancora si nascondono nelle pieghe della nuova
democrazia, ma non l’ha mai resa pubblica. Una commissione d’inchiesta –
senza poteri giuridici – sta redigendo un report da sottoporre al nuovo
apparato che, non appena verrà nominato dal nuovo governo, avrà il compito
di processare e sostituire i quadri lealisti al partito di regime ancora
attivi nelle istituzioni economiche e politiche del paese.
Secondo Abd Al Rauf Ayadi, attivista per i diritti umani e avvocato di
spicco, numero due di Marzouki e del Cpr, papabile futuro ministro della
Giustizia, “bisogna riformare il sistema giuridico in modo da poter
applicare quella che chiamiamo ‘giustizia transizionale’. Su questo punto
siamo già d’accordo con Ennahdha”. Parlando nella sede del suo partito,
Ayadi – che ha passato 5 anni e mezzo in prigione e 10 agli arresti
domiciliari per aver denunciato il regime di Ben Ali – è duro con gli ex
della dittatura: ”Il voto popolare ha dato un segnale chiaro. Abbiamo vinto
noi ed Ennadha perché siamo stati gli unici partiti contro l’Rcd. E ora
dobbiamo fare giustizia per portare a termine la rivoluzione”. Sulla
“giustizia transizionale” si giocherà molto del futuro del prossimo
governo, e della Tunisia.

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