martedì 15 novembre 2011

La rivoluzione è appena cominciata

da' "LIMES" on line, Elezioni in Tunisia

di Andrea de Georgio

Il voto di fine Ottobre è stato il primo passo, epocale, verso un futuro incerto cui guarda con attenzione tutto il mondo arabo. L'islamismo "turco" di Ennahdha e quello del Cpr. Il caso di "Petizione Popolare". Primo imperativo: rilanciare l'economia.

Il 23 Ottobre 2011 rimarrà impresso nella storia della Tunisia e di tutto il mondo arabo: è la data delle prime elezioni libere, dopo più di vent’anni di regime di Zine El Abidine Ben Ali e una trentina di governo autocratico di Habib Bourghiba. L’atto di nascita della prima vera democrazia araba della primavera araba? Il primo passo nel processo d’istituzionalizzazione della Umm’ al Thaurat, la “madre delle rivoluzioni”? O il tradimento delle aspettative e delle speranze nate nelle piazze di Tunisi? Questi sono alcuni degli interrogativi usciti dalle urne elettorali del più piccolo Stato del Maghreb, ai quali solo il tempo potrà trovare delle risposte.

Ultimamente tutti guardano alla Tunisia e alle sue elezioni, con un misto di interesse, curiosità e scetticismo. Il faro, l’apripista di una lunga stagione di tornate elettorali, dibattiti politici e ridefinizione identitaria che potrebbe cambiare il volto dell’intera regione - mai come ora dinamica e in fermento - e rinegoziarne gli equilibri di forza. Marocco ed Egitto preparano alacremente le proprie elezioni. Turchia, Qatar ed Arabia Saudita giocano la partita decisiva per la leadership ideologica, politica ed economica dei paesi arabo-islamici. Stati Uniti ed Europa concorrono, a suon di fondi e progetti, ad aggiudicarsi la palma di paladino della libertà dei paesi in via di sviluppo.

A Tunisi il 23 Ottobre non è una domenica come le altre. Fin dalle prime luci del giorno, dopo la preghiera del mattino, folle di cittadini si mettono ordinatamente in fila davanti alle centinaia di seggi, sparsi ovunque nella capitale. Ad Aiyy Tadamoun, il più grande quartiere popolare del Nordafrica (470 mila abitanti, secondo l’ultimo censimento del 2004), una città nella città, nella periferia nord-ovest di Tunisi, la gente affolla dall’alba la scuola elementare vicino allo stadio, principale seggio del quartiere. Da una parte le donne, dall’altra gli uomini. Alcuni soldati armati vigilano, smistando le persone nelle varie aule. Tutto avviene in un clima di infinita pazienza, quasi di festa. Intere famiglie si scambiano saluti e impressioni. Bambini di tutte le età scorrazzano per il cortile della scuola, felici ed inconsapevoli.

È una giornata storica per la nostra nazione e per tutti i paesi arabi: per la prima volta siamo davvero liberi di esprimere la nostra opinione. Da oggi il nostro è un paese nuovo!”. Hajia è una signora di mezza età, volto gentile incorniciato dall’hijab blu scuro. Come lei moltissimi si recano alle urne per la prima volta nella vita. L’emozione è palpabile. “Prima, quando c’era Ben Ali, le elezioni erano solo una grande presa in giro. C’erano schede di diverso colore, così si vedeva subito chi votava per chi. Oggi c’è trasparenza e libertà, finalmente”. La stragrande maggioranza della gente di Aiyy Tadamoun dice fieramente di voler votare per Ennahdha.

Il partito islamista di Rachid Gannouchi e Hamadi Jbali fa incetta di voti fra gli strati più popolari della società, ma anche fra quella borghesia medio-alta che crede che il pilastro identitario su cui si debba edificare la Tunisia di domani non possa che essere l’Islam, dopo anni di laicismo imposto dall’alto. La natura ideologica di Ennahdha sta tutta nella sua denominazione. Letteralmente “rinascita”, il nome scelto dal partito (fino all’89 si chiamava Mouvement de la tendance islamique) si riferisce direttamente alla Nahdha, il cosiddetto “Rinascimento arabo”, movimento intellettuale nato in Egitto a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, distintosi per la rilettura in chiave progressista e moderna dell’Islam teorizzata dai suoi tre principali pensatori: Muhammad Abduh, Rachid Rida e Jamal al Din al Afghani.

La matrice politica originaria del movimento islamista tunisino, nato nei primi anni Ottanta e formatosi in clandestinità o nel buio delle galere del regime, è invece quella dei Fratelli Musulmani egiziani. Semplificando, sono movimenti politici che trovano la propria linfa vitale nell’assistenzialismo e nel richiamo diretto alle radici musulmane. Ma la Tunisia non è l’Egitto, né tantomeno la Libia o l’Algeria. La Tunisia è un paese storicamente più laico, che si fonda su basi di tolleranza, libertà civili e convivenza confessionale, oltre che multietnica.

Qui il fondamentalismo islamico non ha grande seguito, come succede invece in altri paesi della regione. Il salafismo, per quanto possa fare paura, è un elemento minoritario. Hizb al Tahrir, sedicente formazione politica salafita che nei mesi precedenti alle elezioni si è distinta per attacchi a bordelli, sinagoghe, cinema e altri luoghi “profani” della capitale - e perciò dichiarato illegale - ha qualche adepto soprattutto nel sud del paese. Ma i fondamentalisti tunisini si sono divisi riguardo alle elezioni. I più pragmatici hanno votato Ennahdha tappandosi il naso, nella speranza che il partito islamista possa presto trasformarsi in avanguardia salafita nel paese. Molti altri, invece, hanno boicottato le urne sostenendo che tutti i partiti, compreso Hizb al Tahrir, e le elezioni stesse siano haram, “peccato” secondo la lettura più severa dei precetti islamici. Da ciò se ne deduce che, per quanto la svolta islamista sia un dato di fatto delle elezioni tunisine, il pericolo d’infiltrazioni salafite all’interno di Ennahdha e del futuro governo non sia niente di più che uno spauracchio.

Il modello
- e, si vocifera, anche i fondi - cui mira il partito di Gannouchi e Jbali è quello dell’Akp turco (vedi visita di Erdoğan ai quadri del partito prima delle elezioni) e del Qatar, piuttosto che quello dell’Arabia Saudita, mano invisibile dei gruppi jihadisti del sud della Tunisia, egiziani, libici e algerini.

Il clima che si respira a un seggio di Aiyy al Nasr, uno dei più ricchi quartieri residenziali della capitale, è diverso rispetto ad Aiyy Tadamoun. Uomini e donne fanno la fila insieme. Poche donne velate. Vestiti all’occidentale. Anche qui molti sostengono di voler votare per Ennahdha, ma aumentano le voci fuori dal coro. Fra le diverse dichiarazioni di voto, in questo seggio spiccano quelle per il Cpr, seconda forza politica del paese. Il Congrès pour la République o Mu’tamar, “congresso” in arabo, è il partito di Moncef Marzouki, antico oppositore del regime fuggito in esilio in Francia e diventato paladino dei diritti umani (è stato perfino presidente dell’Arab commission for human rights).

Il suo partito, nato nel 2001, il cui logo è un disegno dei suoi occhiali rossi e verdi – simbolo della personalizzazione che caratterizza il Cpr così come molti altri partiti locali – trova forza e consensi, oltre che nell’antica opposizione al regime di Ben Ali, nella felice commistione fra discorso democratico e discorso islamista. Come sostiene Abd Al Rauf Ayadi, delfino di Marzouki e probabile futuro ministro della giustizia: “Siamo diversi da Ennahdha. Il nostro non è un partito ideologico. Ma neanche antisilamico come il Qutb (Polo democratico modernista, ndr) o il Poct (Partito comunista dell’ideologo Hamma Hammami, ndr) o tanti altri che si dicono progressisti e laici. L’Islam è la religione del popolo, fa parte della nostra identità. Ci sono diverse correnti al suo interno, ma il Cpr è un partito politico con un programma che guarda soprattutto al rispetto dei diritti umani e allo stato di diritto. Noi vogliamo che la Tunisia diventi la patria della democrazia”.

Nelle differenze riscontrabili fra i seggi di Aiyy Tadamoun e Aiyy al Nasr sono riassunti i due volti della Tunisia di oggi. Da una parte gli sfarzi e un maggior grado di apertura della capitale e di altre città della costa - come Sfax - che godono di una condizione economica favorevole grazie alle industrie e al turismo; dall’altra, l’interno e il sud del paese, in condizioni economico-sociali preoccupanti.

Simbolo di questa seconda Tunisia marginalizzata è il triangolo Sidi Bouzid-Gafsa-Kasserine, tre città-simbolo della storica lotta contro il potere centrale – fin dai tempi di Bourghiba - e della rivoluzione tunisina. A Sidi Bouzid si è dato fuoco il venditore ambulante Muhammad Bouazizi, primo martire e miccia della rivoluzione. A Gafsa, nel dicembre scorso, sono scoppiate le prime rivolte contro Ben Ali. A Kasserine è stato pagato il prezzo più alto, in termini di vite umane, della cacciata del raìs. Queste tre città irredentiste sono tornate alle cronache la settimana successiva alle elezioni, a causa dei gravi scontri e devastazioni che sono seguiti, soprattutto a Sidi Bouzid, alla decisione di invalidare i voti ottenuti da Aridha Asshabiyya, vera sorpresa elettorale e terza forza politica uscita dalle urne.

La Petizione Popolare è una lista indipendente nata alla viglia delle elezioni e animata da un personaggio noto e molto controverso, Hacmi Hamdi. Ex esponente di Ennahdha passato nelle file dell’Rcd di Ben Ali e successivamente autoesiliatosi a Londra, Hamdi è un imprenditore arcimilionario e camaleontico, dal carattere iracondo. Fondata la sua lista ad personam, ha fatto campagna elettorale dall’Inghilterra attraverso la sua televisione privata Al Mustakilla, promettendo di ritornare in Tunisia solo a elezioni terminate. Originario di Sidi Bouzid (dove ha ottenuto la maggior parte dei consensi), Hacmi Hamdi ha minacciato di ritirare tutti i propri candidati a seguito dell’invalidazione dei voti ottenuti in 7 circoscrizioni, a causa di alcuni candidati noti Rcdisti e della violazione di una norma contro i finanziamenti internazionali ai partiti. Da qui la collera della gente di Sidi Bouzid, che si è sentita presa in giro dagli organi transitori e ha devastato la città.

A placarli, oltre che il coprifuoco imposto dai militari dopo due giorni di scontri, è bastato un intervento dello stesso Hamdi a una delle tante arene politiche televisive, in cui ha invitato la sua gente alla calma, e la successiva decisione dell’Isie – l’Istance supérieure indépendante pour les eléctions, organo guidato da Kamel Jendoubi incaricato dell’organizzazione e del controllo delle elezioni, che ha dimostrato notevole serietà, ponderatezza e responsabilità – di restituire, dopo aver valutato il ricorso presentato da Aridha, parte dei seggi tolti al suo partito.

Dopo tanta confusione, al netto dei risultati elettorali i 217 seggi disponibili nell’Assemblea Costituente saranno così ripartiti, secondo un complesso sistema proporzionale garanzia di pluralismo: 91 a Ennahdha, 30 al Cpr, 26 a Aridha asshabiyya, 21 a Attakattol (socialdemocratici guidati da Mustafa Ben Jafar), 17 al Pdp (Partito democratico progressista, grande sconfitto delle elezioni), 5 al Pdm (Polo democratico modernista), 3 al Poct (partito comunista) e le briciole a una moltitudine di partitelli anonimi e liste indipendenti. A questa pletora di nuovi attori politici viene chiesto di scrivere la nuova Costituzione tunisina e formare un governo tecnico di unità nazionale che possa traghettare il paese verso delle vere elezioni politiche, fra massimo un anno.

L’unica certezza, per ora, è l’alleanza strategica fra Ennahdha, Cpr e Attakattol per cercare di isolare Aridha e il suo leader. Oltre all’interrogativo sul futuro Presidente (Jbali? Marzuki? Ben Jafar?), molte sono le questioni che ancora aspettano risposte concrete. Primo fra tutti il problema economico, cioè fondamentalmente come mettere un freno al tasso di disoccupazione, galoppante soprattutto fra i giovani e sensibilmente peggiorato dopo la rivoluzione. Cifre ufficiali, aggiornate al maggio 2011, parlano di oltre 704 mila disoccupati contro i 491 mila del maggio 2010. Alla disoccupazione si sommano le gravi conseguenze sul piano sociale e demografico.

I giovani tunisini non si sposano più (da qui la trovata propagandistica di Ennahdha che, prima delle elezioni, ha organizzato e finanziato diversi matrimoni comuni in giro per il paese). I tassi di crescita demografica si stanno contraendo pericolosamente. Nel giro di 15-20 anni lo scenario al quale la Tunisia rischia di andare incontro, se non verranno fornite delle soluzioni politiche e sociali, è quello di un’economia in forte ripresa ed espansione priva però di forza lavoro, con conseguenti problemi di immigrazione e conflitti sociali. Un’altra questione aperta – come dimostrato dall’”affare Aridha” - è senza dubbio cosa fare dei vecchi sostenitori dell’Rcd, partito unico dell’epoca Ben Ali.

Dopo 23 anni di dittatura
, si stima che gli appartenenti o simpatizzanti dell’Rcd si aggirino fra i tre e i quattro milioni. Impossibile epurare completamente i quadri delle istituzioni del paese. Il rischio è distruggere le fondamenta della rinascita economico-politica, come accaduto nell’Iraq de-bathizzato (liberato, cioè, da tutti gli elementi del vecchio partito Bath). Di questo sono consapevoli sia Ennahdha sia gli altri principali attori politici tunisini. Fin dai primi giorni dopo le elezioni, infatti, stanno lavorando a un progetto comune che chiamano “giustizia transizionale”. Riformare subito il sistema giuridico, valutare le responsabilità reali dei principali ex-Rcdisti ancora presenti nella scena pubblica e assicurarli alla giustizia. Una lista di oltre 400 nominativi è al vaglio di una commissione speciale dell’Isie, che presto renderà pubblici i risultati del proprio lavoro investigativo.

Il caso della Tunisia - “il paese dove tutto è impossibile ma realizzabile” come ironizzano i ragazzi del 14 Gennaio - dimostra come la ribellione popolare contro i vecchi regimi autocratici che ha portato a cambiamenti repentini ed epocali nel giro di poche settimane (da qui appunto il concetto di rivoluzione, mutuato dall’astrologia), non sia che il primo passo di un lungo ed impervio cammino verso un futuro ancora incerto e in via di definizione. Le sorti dell’intero mondo arabo passeranno obbligatoriamente dal destino di questo piccolo paese maghrebino.
(15/11/2011)

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