di Andrea de Georgio, Free lance
da un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Foglio”
Per le strade di Tunisi le moto della polizia sono ovunque. Gli agenti in
abiti civili, jeans e giubbotti di pelle, portano sempre gli occhiali da sole, per celare i loro sguardi sui passanti. Assomigliano terribilmente agli sgherri dell’ex presidente Ben Ali, quella polizia speciale che faceva della Tunisia un regime, ma non fanno più paura. Perché in mezzo c’è stata la rivoluzione. Anzi, “la madre delle rivoluzioni”, come la chiamano qui, Umm’ al Thawrat. Così, a pochi giorni dalle prime elezioni pluraliste del
paese – e delle prime elezioni di un paese scosso dalla primavera araba, un test per tutti
– con cui si eleggerà un’Assemblea costituente, le ragazze vestite all’occidentale sfilano
spensierate per le vie del centro, fra una vetrina di moda italiana e un chiosco di chawarma,
fianco a fianco a coetanee che portano l’hijab.
Ma non tutta la capitale è così gioiosa. Davanti al ministero dell’Interno
e in alcune altre piazze del centro le matasse di filo spinato e i mezzi
corazzati, armati di tutto punto, ricordano ai tunisini che il tempo della
rivoluzione, degli scontri di piazza, della transizione verso la democrazia
non è finito. Ci vorrà altro tempo, mormorano nei caffè. Forse più di
quanto la gente, soprattutto le classi popolari, non abbia pazienza di
aspettare. Non basta indire libere elezioni per risolvere i conflitti
interni alla società tunisina. Il vuoto istituzionale e politico lasciato
in eredità da ventitré anni di regime clientelare di Ben Ali pesa sul
destino di questo piccolo paese maghrebino.
Nelle ultime settimane, sui muri di Tunisi sono apparse file di riquadri
tracciati con lo spray nero. Sono gli spazi destinati ai manifesti
elettorali, diligentemente organizzati in modo che ognuno tra le decine di
nuovi partiti e partitelli abbia lo stesso spazio. Prove generali di
democrazia? I tanti partiti che coprono tutte le sfumature politiche,
colorando i muri della capitale di simboli dalle tinte variopinte, dopo
decenni di partito unico, sembrerebbero andare proprio in questa direzione.
Socialisti, centristi, repubblicani, modernisti, islamisti, comunisti.
Minimo comun denominatore il richiamo, nel nome o negli slogan, alla
democrazia e a un ancora imprecisato sentimento di appartenenza nazionale.
Basta farsi un giro nei mercati, dai souq della Medina ai banchi dei
venditori abusivi dei quartieri periferici, per rendersi conto che la
presenza di un numero sconsiderato di fazioni – solo a Tunisi si presentano
più di cento formazioni politiche – non fa altro che alimentare la
confusione. La gente colleziona volantini di ogni partito, consegnati con
fare ordinario da attivisti e volontari delle varie formazioni, che non
degnano il potenziale elettore nemmeno di uno sguardo. Gruppi di uomini di
mezza età discutono animosamente seduti ai tavolini dei caffè. Fino a
qualche mese fa le discussioni erano monopolizzate da un unico tema: il
calcio. Oggi, nella Tunisia liberata, non è più vietato parlare di
politica, ma il tenore dei dibattiti da bar sembra rimasto invariato.
Nella moltitudine di partiti che si presentano alle elezioni per
l’Assemblea costituente, a spiccare per importanza e seguito, sono i
movimenti politici che erano già (clandestinamente) attivi durante gli anni
del regime. Su tutti brilla la stella di Ennahda (“rinascita”,
“risveglio”), il partito di ispirazione islamica che fa paura all’occidente
e anche a quegli strati della società tunisina che rivendicano quella
neutralità confessionale che ha da sempre fatto della Tunisia un paese sui
generis in Maghreb, soprattutto per quanto riguarda il livello di libertà e
tolleranza religiosa. Non sono in pochi ad agitare, in questi giorni, lo
spauracchio dello stato islamico, del califfato, della minaccia salafita e
del fondamentalismo. Il partito islamista di Ennahda, rappresentato da
personalità di spicco dell’opposizione al regime di Ben Ali, spesso
cresciuti politicamente nelle galere o in esilio all’estero, sa che può
essere strumentalizzato, forse in alcuni casi se ne approfitta.
Nata nei primi anni Ottanta, con il nome di Mouvement de la tendance
islamique, la formazione nel 1989 ha deciso di eliminare ogni riferimento
diretto all’islam, a partire dalla ragione sociale: diventa Haraka Ennahda,
conservando nel nome la natura movimentista (Haraka sta per “movimento”),
ma riprendendo un termine caro alla storia del pensiero politico
arabo-islamico (la “Nahdha” è il cosiddetto “Rinascimento arabo”, a cavallo
fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento). Ziyad Taoulouki,
principale candidato nella circoscrizione di Tunisi 2 (fuori dal centro,
composta sia da quartieri popolari sia da zone lussuose come La Marsa e La
Goulette) e probabile futuro ministro degli Esteri in caso di vittoria di
Ennahda, è un buon esempio della classe dirigente del partito. Ha
cominciato a masticare di politica durante gli studi in farmacia,
all’università. La militanza nel movimento islamista gli è costata
quattordici anni di regime carcerario duro, la maggior parte dei quali
trascorsi in isolamento, in una cella di un metro per tre. Taoulouki
conserva ancora i segni delle torture. Fissa il nostro appuntamento in una
modesta casa di un solo piano, con tanto di cortile interno e galline che
scorrazzano dappertutto, in un quartiere popolare della periferia di
Tunisi. A causa di una legge promulgata dalle autorità di transizione
qualche settimana fa, a tutti i candidati alle elezioni è espressamente
vietato rilasciare interviste ai giornalisti stranieri (si vocifera a più
livelli che sia una legge inizialmente pensata contro al Jazeera, che è per
forza di cose poi ricaduta su tutti i media internazionali). Ma nei paesi
arabi, si sa, una chiacchiera non si nega a nessuno, soprattutto dopo
decenni di silenzio forzato.
Ziyad Taoulouki si presenta, come la maggior parte dei leader di Ennahda,
come un politicante pragmatico dai toni pacati. “L’ultima cosa che sogno
per il mio paese è vedere tornare le forche e la repressione che c’erano
durante gli anni del regime di Ben Ali. Allora, nelle carceri c’erano tra i
trenta e i quarantamila prigionieri politici. L’islam che noi
rappresentiamo è quello in cui crede la maggior parte della popolazione
tunisina. E’ la religione della tolleranza e del dialogo. Nulla a che
vedere con estremismo, fondamentalismo e terrorismo”.
Il registro dei candidati, dei quadri del partito, dei militanti e del
programma (sia nella versione in lingua araba sia in quella in francese) è
sempre lo stesso. Un segnale che dimostra come Ennahda sia il partito
maggiormente (se non l’unico) strutturato e organizzato politicamente nella
Tunisia odierna. Sembra che tutti i suoi membri leggano da un copione. Ci
sono pochi dubbi riguardo alla loro vittoria: secondo le ultime previsioni
il consenso si aggira attorno al 30 per cento dei voti, molto più di tutti
gli altri partiti, ma comunque non sufficiente per governare in solitudine.
Anche loro hanno alcune preoccupazioni: bisogna fare attenzione al pericolo
dell’isolamento internazionale, ad esempio: “I governi occidentali,
l’America e l’Europa riconosceranno la nostra vittoria?”, chiede Taoulouki
prima di cominciare la preghiera (dev’essere aiutato a fare le
genuflessioni rituali, per problemi fisici causati dalle torture).
Per la maggior parte del tempo però i leader di Ennahda ostentano sicurezza
di vincere. L’unico interrogativo in seno ai rappresentanti del partito,
così come alla gente comune, è se stravinceranno oppure no. “Anche se
dovessimo superare la soglia del 30 per cento, inshallah, è nostra
intenzione formare una grande coalizione, un governo di unità nazionale
lasciando aperta la porta a chiunque voglia farne parte”. I messaggi di
apertura si sprecano. Anche perché Hizb al Tahrir, il principale partito
salafita (gli altri movimenti fondamentalisti ritengono che costituire un
partito sia haraam, “peccato”), non ha ottenuto il permesso di partecipare
alle elezioni da parte del governo di transizione, restando a tutti gli
effetti un partito illegale. Ma è proprio per questo che da più parti,
all’interno del paese come all’estero, molti temono che la base di Ennahada
si sia aperta alle frange più fondamentaliste, lasciando che i salafiti
infiltrassero l’unico partito islamico che può vincere le elezioni.
Già, la base. Un problema vecchio come la politica. Lo sanno bene alla sede
centrale del partito, un palazzone tutto vetrate che si trova nel cuore di
Montplasir, il quartiere finanziario di Tunisi. Ennahda è il principale
partito islamista e il sentimento di appartenenza identitaria alla
religione coranica è un fenomeno in forte espansione nella Tunisia post
rivoluzionaria. Soprattutto all’interno del paese e al sud, così come nei
quartieri popolari della capitale (zone in cui la situazione economica è
assai peggiorata dai tempi del regime di Ben Ali e in cui fa più presa la
vocazione sociale del movimento), sono in molti a vedere Ennahda come
l’unico partito che possa rappresentare l’istanza di una Tunisia islamica e
non più laica. Dall’altra parte della barricata ci sono le classi
medio-alte della borghesia di Tunisi, che sono scese in piazza il 16
ottobre per protestare pacificamente contro un’imponente manifestazione di
Hizb al Tahrir del venerdì precedente (finita davanti alla sede del
ministero della Cultura con scontri tra frange violente e forze di
polizia). La borghesia rivendica la laicità e la storica neutralità
religiosa dello stato tunisino, chiedendo riforme democratiche e rispetto
dei diritti civili.
Ziyad Taoulouki e Souad Abd al Rahim (capolista di Tunisi 2 e unica donna
non velata che si candida con Ennahda) negli ultimi giorni hanno
partecipato assieme ad altri candidati del partito a comizi elettorali
organizzati in tutti i quartieri della capitale. Il barometro più
affidabile rispetto alle spinte della base è stato l’incontro nella sala
delle feste della moschea di Omran, quartiere popolare periferico, al quale
hanno partecipato circa cinquecento persone (attirate dalla proposta
politica, ma anche dalla distribuzione gratuita di casse d’acqua da parte
dei militanti del partito). C’erano tante famiglie venute dai casermoni
circostanti. Tante donne velate, ma anche molte senza il velo. Ad aizzare
maggiormente la folla, più che le promesse in materia economica e sociale,
è il richiamo diretto alla religione. Ci sono stati anche alcuni episodi di
intolleranza da parte degli islamici, come non se ne vedevano da molto
tempo. Dopo decenni di repressione del sentimento religioso, nella base
tunisina sta tornando a soffiare forte il vento dell’islam.
Il Chiasmo delle idee nasce come un piccolo laboratorio artigianale di pensiero con l'idea che la creatività è l'incontro di un viaggio interiore che attinge all'esterno.
giovedì 3 novembre 2011
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