venerdì 18 marzo 2011

I primi contributi

Anche la neve è viva
di Maria Gabriella Manno
Sospeso nel tempo. Così immagina il rilassamento del suo corpo. E disteso morbidamente nello spazio, alla luce sottile di un’alba di un giorno qualunque.
Sono ormai diverse ore – no, non può sapere quante: sei, dieci? Forse solo una – che trattiene il respiro cercando di non muovere assolutamente alcuna fibra, alcun muscolo, nessuna impercettibile contrazione e più trattiene più si accorge di quanto rumoroso e inquieto sia un essere vivente. Quanto desidera in questo momento il silenzio e la quiete della morte. Quanto preferirebbe mille volte la paralisi di ogni impulso umano del suo corpo, una dimensione pietrificata della sua espressività che ora, davvero, non servirebbe a esprimere niente altro se non la sua celata postazione.
“Vai bambino/ vai in quel mondo/ dove la luna assiste il tuo sonno…”
Ora no. Il ricordo tessuto nelle maglie della mente si dispiega con prepotenza: una madre seduta per terra abbraccia suo figlio e gli canta una nenia. “Vai bambino/ vai…” Perché il pensiero non si ferma e ripete costante la stessa canzone? Gli occhi di quella donna che guarda e non vede, le sue mani tremano e il corpo si muove come un pendolo, avanti e indietro piegato su se stesso. Un’immagine fissa difficile da cancellare. La volontà può aiutarlo, sì meglio pensare a quell’altro corpo di donna, caldo, svelato, toccato, schiacciato nell’amplesso. Non ricorda il suo nome, però. La volontà. La forza. Quante parole hanno cambiato il loro significato. “Vai bambino/ vai in quel mondo/ dove la luna assiste il tuo sonno/…” La volontà. Quando aveva deciso non sapeva ancora quali altri sentimenti inesplorati esistevano in lui. Aveva provato l'amore, aveva vissuto abbandoni, aveva provato pietà. Forse. Ma quando aveva deciso i suoi piedi erano stanchi, le preghiere si erano trasformate in abiti usati riposti nell’armadio per la prossima stagione e, si sa, l’anno dopo c’è sempre qualcosa che si butterà via, c’è già qualcosa che non vuoi più, che non ti piace più ma lo riponi, comunque. In un armadio. Per un’altra stagione. Un giorno lo butterò o un giorno potrà servire. Ricorda che aveva sempre pensato che, senza fornire inutili giustificazioni, la tendenza fondamentale di chi persiste nel ripetere costantemente lo stesso errore fosse quella di sperimentare la coerenza fra tempo e azione. Ricorda che aveva sempre detto che non ci sono comportamenti giusti o sbagliati in sé, ma cose adeguate in alcuni momenti e assolutamente inutili, quando addirittura distruttive, in altri. Una sorta di relativismo applicato al quotidiano che, forse, contrastava con la sua rigorosità. Prendiamo ad esempio in considerazione il caso in cui uno qualunque - una persona, un uomo o una donna ad una particolare età - si trovasse un giorno – uno qualunque di un certo anno in un dato secolo – a rispondere ad una richiesta proveniente dalla sua precaria alchimia terrestre. Sente che deve decidere. Sente che è necessario, proprio in quel momento, che lui faccia una fottuta scelta. E questa scelta non ha niente che somigli a quello che ha contraddistinto la sua vita fino a quel momento. Come una fiera che vive nella steppa e debba un giorno decidere (e la decisione dipende solo da lei) di vivere in cattività. Come una nave che decide di solcare laghi invece di oceani; come un medico che uccide anziché guarire un suo paziente. Come un uomo di pace che sceglie di entrare in guerra - dirà poi che ne sono responsabili le circostanze.
E non tutte queste cose come metafora, come racconto attraverso le analogie del sentire di quest’uomo, non un aiuto offerto al lettore per avvicinarsi alle emozioni di una narrazione, per comprendere ciò che non si può o non si riesce a descrivere. No, non una tattica peraltro consueta dello scrittore che ti avvicina all’immagine per farti intravedere anche la cornice. Semplicemente Lucas è tutte queste cose: medico lo era diventato molto presto, una laurea presa velocemente, studiando anche la notte per poter esercitare subito senza perdere tempo, brama di aggiustare, di mettere a posto, di sconfiggere la morte. E poi la rabbia da sempre, come una fiera, rabbia come energia, come spinta, come calci autogeni, strappati alla pigrizia e alla mancanza di stimoli ogni qualvolta sentiva che il suo corpo si accasciava per cercare una posizione comoda. La rabbia di suo padre. La rabbia per suo padre. E poi il mare e l’andar per mare come terapia, come conquista, come orgasmo puro, come silenzio. Il silenzio delle cose che sanno e che non dicono. Il silenzio del pescatore. “Dove sarà ora la mia nave?” pensa Lucas.
Tutto rivoltato. Tutto stravolto quando aveva deciso di fare anche lui la guerra, di unirsi agli uomini che avevano cercato un’arma qualunque, un fucile da caccia, un’arma trafugata e nascosta in sottoscale puzzolenti di muffa, ed erano andati incontro ad altri uomini che, si vedeva, erano tremanti di collera, scossi dalla dissonanza fra le differenti spinte che venivano dall’anima e da quelle che fuoriuscivano dalla mente. Si deve combattere – non si uccide – la necessità della guerra – sei un uomo come me – distruggere – costruire: “Avevo costruito la mia casa. Un giorno l’ho vista bruciare.” Pensa Lucas.
Lo sparo. E poi un altro, più lontano. “Non devo muovermi ora, non ancora, ti prego. Amico mio mi sento in colpa per volerti sopravvivere. Non muovo neanche un impercettibile muscolo di una mano per provare a salvarmi. Non mi muovo ma mi sento colpevole. Ti giuro, amico mio, non è colpa mia è la vita che vuole vivere, l’istinto di sopravvivenza che caratterizza noi umani e ci rende simili agli animali, alle piante…non è colpa mia se voglio vivere”. Pensa Lucas guardando il corpo dell’amico morto.
“Vai bambino/ vai in quel mondo/ dove la luna assiste il tuo sonno/ dove le stelle ti guardano e ridono/ dove anche il cielo ti parla cantando./ Vai bambino/ vai senza paura/ anche se è buio la vita ti culla/ anche se è freddo tu pensa alle nuvole/ che stanno da sempre a proteggere il sole./ Il tuo respiro sta sul mio cuore/ ma non sentire freddo mio amore/ senti il silenzio che crea tutto intorno/ la neve che viene a vestire i tuoi sogni./ Vai bambino/ vai in quel mondo/ senza temere la morte del sonno/ sei al sicuro qui sul mio corpo/ il cielo saluta/ le stelle ti abbracciano/ anche la neve per te è viva.” Aveva ascoltato la donna cantare una ninna nanna per strada abbracciata al suo bambino era il 14 Ottobre del 1991, la città di Vukovar era sotto assedio, la guerriglia impazzava, la gente fuggiva, Lucas aveva trovato un fucile. Aveva deciso.
E oggi dopo più di un anno continua a combattere ma non può muoversi, potrebbe essere visto. Intuisce solo ora che la mente cerca di aiutarlo: lo culla dolcemente al suono della voce di quella donna che tenta di salvare il suo bambino dagli incubi e dalla follia umana. Non c’è bisogno di muoversi per piangere e le lacrime non fanno rumore.


Gabriella Manno

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