La maternità? Uno stato di grazia, un dono mistico
Una voce per ascoltare e raccontare: è racchiusa nel suono e nel rimando delle parole alle emozioni profonde l’amore di Anna Rita per il teatro, nato dalla curiosità dell’altro che è appunto un risuonare. Sulla parola e sul verbo delle donne lavora, facendo del corpo e dell’anima un unico che si muove all’unisono.
Ho conosciuto Anna Rita, nata a Mantova, una giovinezza in Liguria, ormai adottata da Roma, ascoltando la sua recitazione di versi poetici alla presentazione di un libro di Benny Nonasky qualche tempo fa. La sua voce, il suo andamento discreto, profondo e vibrante mi hanno colpita. Il suo tono è più basso, più accorato, più intimo della classica voce di donna. In lei risuona la femminilità dell’accoglienza che seduce di ritorno; non l’ammiccamento. Spesso le attrici italiane sembrano guardarsi sempre allo specchio; Anna Rita si guarda dentro. Non si espone sul palco come in vetrina, ma si mette di lato e invita il pubblico a seguirla…sulle tracce della parola. Arriva diretta la grazia che non è solo fisicità ma armonia, frutto probabilmente anche della costanza nella meditazione e nella pratica yoga.
Quando entra il teatro nella tua vita?
«Molto presto, per attitudine prima che per scelta. Fin da piccola amavo molto leggere e ho cominciato a leggere ad alta voce, ad ascoltarmi quindi a leggere per gli altri. Poi vennero le recite; quindi - forse ero ancora alle scuole medie – una compagnia di ragazzi cercava un’interprete per il ruolo di Ismene nell’”Antigone” del drammaturgo svizzero Jean Anouilh (scritto nel 1941 e pubblicato nel 1943), un atto unico, e fu così che ho cominciato per gioco».
Come sei entrata dentro il teatro?
«Mi piaceva molto ascoltare».
Lo posso garantire: nel corso della nostra conversazione io avrei dovuto fare le domande e lei dare le risposte; in verità credo di aver parlato e letto, soprattutto io. Fa parte dell’azione magnetica di Anna Rita: rovesciare i ruoli per arrivare al cuore delle persone.
Prima di porle la domanda sulla maternità tra incubo e sogno dalla quale è nata l’idea di fare una serie di interviste ad attrici e artiste, non ricordo più come ha cominciato a parlare di uno spettacolo “Il mondo delle cose senza nome”, tratto dal libro omonimo (edito da Fazi Editore), che va al cuore della maternità come pienezza, dolore e sfida, ma soprattutto comunicazione nel senso profondo di empatia.
E’ questa una delle tante interpretazioni teatrali alle quali è maggiormente legata.
«”Il mondo delle cose senza nome” – mi ha raccontato - per la regia di Nello Cioffi, spettacolo del quale ho curato io stessa l’adattamento per la stagione 2007/2008 è uno spettacolo che fa parte della mia vita affettiva oltre che professionale e sono contenta che sia legato ad un premio, il Premio per il teatro Anima nel 2008. E’ un lavoro al quale sono affezionata perché ho seguito passo passo la genesi del testo, di una mia cara amica e ho sofferto insieme la storia. L’autrice, Daniela Rossi, è una scrittrice, pittrice e psicologa milanese che si è trovata ad affrontare la sordità del figlio da sola, mentre il compagno si allontanava incapace di sostenerla e i medici si limitavano a dare sentenze, in alcuni dei casi, fortunatamente rivelatesi errate come la presunta affezione da sordità profonda. La realizzazione teatrale è diventata la rappresentazione dello sforzo di comunicazione intimo portato avanti da una madre verso un figlio e riproposto in chiave sociale con una forte empatia registrata da parte del pubblico, grazie anche all’uso delle immagini e della danza. Tra l’altro è stato simbolicamente realizzato uno spettacolo anche per non udenti con i sopra titoli ed una struttura nella quale la corporeità fosse una componente determinante. Purtroppo il Teatro Nazionale dell’Opera di Roma che aveva dimostrato grande interesse e apprezzamento, dipendeva dall’Opera di Roma che fu commissariata, bloccando tutti gli spettacoli. Il risultato fu di grande amarezza e fu annullato anche lo spettacolo in programma al Teatro Duse di Genova per il quale io lo avevo adattato con un lungo processo di riduzione e una fatica non indifferente».
Adesso a cosa stai lavorando?
«Mi piacerebbe portare nuovamente in scena questo spettacolo al quale sono rimasta profondamente legata. Inoltre debutto il 14 dicembre a Gualdo Tadino con un monologo dedicato a’ “Il testamento di Anita Garibaldi”, scritto da Valentino Zeichen, pubblicato quest’anno».
Ancora una storia al femminile.
«Sì ed è soprattutto sui monologhi di donne che vorrei concentrare la mia attenzione. Per ora ho messo in scena lo spettacolo solo con un test alla Galleria dell’artista Enzo Cucchi a Roma a giugno scorso e finalmente debutta a teatro; quindi spero di portarlo a Roma per il 2013. E’ interessante il personaggio analizzato, non tanto come figura storica, quanto nella sua femminilità, filtrata a 360 gradi, soprattutto per il suo amore assoluto verso un uomo rispetto al quale la storia l’ha letta come la spalla, la deuteragonista. Il testo la riscopre nella sua modernità e tragicità, morta in Italia incinta di sei mesi».
Un altro testo sul rapporto complesso tra donna e maternità. Hai interpretato altre volte il ruolo di madre? «Nella fiction per Rai 1 di Vittorio Sindoni, “Non lasciamoci più”».
Cos’è la maternità per te?
«Uno stato di grazia, un regalo mistico del quale a distanza di sedici anni, dalla nascita di mio figlio, ricordo tutto l’incanto, il senso di felicità irrazionale e soprattutto di pienezza con quella sorpresa che è la vita».
L'intervista integrale su Saltinaria.it
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